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Filippo Andreatta controcorrente. Amico degli Usa. Perciò furibondo

"La violenza suicida di Bush ridà fiato a un antiamericanismo vecchio di decenni, e rischia di farci abbandonare l’Iraq .Ma sarebbe una follia".

di Ettore Colombo

Filippo Andreatta, giovane e brillante studioso di relazioni internazionali all?università di Parma, è una delle più promettenti teste d?uovo dell?area
ulivista e riformista. Uno di quelli che non piacciono ai radicali di casa nostra. Che gli darebbero dell??amerikano? senza pensarci due volte. Andreatta, furibondo con gli Usa, li critica a fondo, ma da amico.
Vita: Quali gli effetti delle torture agli iracheni sull?opinione pubblica americana?
Filippo Andreatta: L?opinione pubblica americana, in nome della lotta al terrorismo e dello sforzo bellico, aveva accettato e giustificato molto, dopo l?11 settembre. Le condizioni nelle quali erano tenuti i prigionieri a Guantanamo, ad esempio, impossibilitati a difendersi. Per un Paese dove l??habeas corpus? è un fondamento della Costituzione, non è poco. Poi c?è stata la fortissima invasione della privacy, altro principio sacro negli Stati Uniti, con il controllo delle email e delle comunicazioni con il Patriot Act e la politica discriminatoria nei confronti di immigrati e rifugiati richiedenti asilo, un?altra eccezionalità rispetto a una tradizione di accoglienza multietnica. Oggi se arrivi da un Paese arabo difficilmente ottieni un visto d?ingresso, negli Usa. Scelte pesanti che però non hanno provocato un cambiamento radicale nell?opinione pubblica rispetto all?efficacia della strategia dell?amministrazione Bush né la fiducia nel suo governo. Ma le immagini delle torture sui prigioneri cambiano tutto, anche negli Usa.
Vita: Solo perché le torture sono giudicate moralmente inaccettabili?
Andreatta: No, anche per un giudizio sul rapporto mezzi-fini. Per dirla con Machiavelli, più che mezzi che non giustificano i fini, fini strategici sbagliati che usano mezzi sbagliati. La guerra in Iraq non ha portato i frutti sperati, le armi di distruzione di massa non sono state trovate e l?insicurezza della gente rispetto al terrorismo è aumentata. Insomma, l?opinione pubblica inizia a dubitare d?una politica estera inefficace. Lo strumento della tortura, moralmente sempre ingiustificabile, può essere giudicato un corollario inevitabile nel corso di una guerra per ottenere
informazioni dal nemico utili a impedire perdite o subire attacchi. Indurre un kamikaze a confessare la rete della sua organizzazione criminale ha un senso. Ma qui siamo di fronte a torture e sevizie prive di ogni utilità militare e del tutto gratuite. Badi che non sto giustificando la tortura, che deve rimanere un atto illegale sul piano del diritto internazionale. Vi
possono essere delle attenuanti sulla base delle informazioni che se ne possono trarre, ma l?onere della prova ricade sui militari che ne devono dimostrare l?utilizzo in circostanze eccezionali; altrimenti, nell?incertezza, le torture verrebbero sempre usate.
Vita: Ma allora, quale strategia persegue l?amministrazione Bush?
Andreatta: La mentalità suicida del tunnel: vanno avanti per la loro strada, sbagliando, intensificando il grado di violenza e passando dunque dall?immagine di liberatori a quella di aguzzini. Serve un cambio di politica dell?amministrazione, o un cambio di amministrazione. In Iraq non serve meno intervento ma più intervento, solo che quello degli Usa è diventato del tutto inutile. Devono accettare il piano Bhraimi e riconoscere che l?autorità provvisoria va sostituita, che serve un nuovo governo locale più rappresentativo della società irachena, e riconoscere un ruolo politico all?Onu che coinvolga nel processo di stabilizzazione democratica i Paesi islamici e altri alleati occidentali. Ecco perché decidere, come Zapatero, per il ritiro ?tout court? è un errore. L?amministrazione Bush sta ripetendo gli stessi errori commessi in Vietnam: non sanno cosa fare se non mantenere un esercito d?occupazione, esercitare violenza, isolarsi. Un modo perfetto per perdere la guerra.
Vita: A proposito di Vietnam. I pacifisti sono pronti a contestare la visita di Bush in Italia. Il centrosinistra, prima diviso, ora preme all?unisono per il ritiro?
Andreatta: Gli errori colossali della politica estera Usa mi preoccupano anche perché ridanno fiato a un?ideologia antiamericana vecchia di decenni. Distinguo, nell?opposizione, i riformisti, che hanno una visione atlantica dello scenario internazionale, e che ritengono “eccezionale”, in senso negativo, la politica di Bush e auspicano il ritorno a una politica multilaterale e al rispetto delle regole di civiltà, ma nel rispetto del cruciale ruolo Usa contro il terrorismo. Un?altra parte dell?opposizione, invece, ideologica e antiamericana per tradizione, vede nella politica estera degli Usa una continuità di volontà imperiale e di dominio capitalistico, in chiave paleomarxista, identica dal Vietnam a Grenada, dal Kosovo all?Afghanistan. Una visione smentita dai fatti: anche Giorgio Bocca oggi ammette che le perdite economiche e umane subite dagli Usa in Iraq sono incommensurabili con i presunti vantaggi del petrolio. Per gli Stati Uniti il problema della sicurezza e della vulnerabilità è più importante di qualsiasi profitto economico. L?approccio più corretto, da parte del centrosinistra, è offrire una sponda ai democratici Usa che vogliono cambiare linea di politica estera. Altrimenti cos?è il multilateralismo?
Vita: Non scenderà dunque in piazza a contestare Bush?
Andreatta: La contestazione alla scelta dell?amministrazione Bush di non far pagare a nessuno gli errori, Rumsfeld in testa, deve essere chiara e netta, come farebbe ogni alleato sincero, ma certo è che la cattiva gestione del caso torture dà argomenti a un antiamericanismo preoccupante e che, pur se di una minoranza, mi ricorda quello ideologico degli anni 50. Il centrosinistra deve invece presentare una
mozione che semmai chiede un rafforzamento della nostra presenza in Iraq, sotto una vera e chiara guida Onu. Le scelte miopi di Bush rischiano di farci abbandonare l?Iraq alla guerra civile e la guerra al terrorismo. Ecco perché, da amico degli Usa, sono furibondo.

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