Giovani

Traversetolo, dieci parole per dire l’indicibile

Dinanzi ai dettagli che emergono dalle indagini di Traversetolo, continuiamo a restare senza parole. Ma le parole vanno in qualche modo trovate. Non per parlare di Chiara, ma per provare a capire che cosa significano oggi questioni enormi e vitali come gravidanza, maternità, figlio. In dialogo con due scrittrici

di Sara De Carli

Davanti ai dettagli che iniziano ad emergere della vicenda di Traversetolo, continuiamo a restare senza parole. Ma le parole vanno in qualche modo trovate. Non per parlare di Chiara – la 22enne che avrebbe nascosto a tutti le due gravidanze, partorito i due bambini e seppellito i loro corpi nel giardino di casa – ma per provare a capire che cosa significano oggi questioni enormi e vitali come gravidanza, maternità, figlio. Per riflettere non su Traversetolo ma attorno ad esso.

Abbiamo provato a farlo con chi è più abituato a leggere dentro l’animo umano (intelligere), a parlare di tutti parlando del singolo: le scrittrici. Sarah Victoria Barberis è traduttrice e giornalista freelance, scrive di etimologia su @etimofuggente e di corpi, sentimenti e relazioni in Come fare l’amore – Romanzo di una sottona (Sonzogno, 2023). È stata responsabile della comunicazione della Scuola Holden e di recente ha ideato e curato il libro I giovani non capiscono niente (edizioni Il Margine), in cui alcuni studenti della scuola hanno messo a tema il conflitto generazionale, confrontando in maniera molto dura i POV-point of view di boomer e Gen Z. I ragazzi hanno immaginato un mondo in cui il potere è saldamente in mano agli under 22 e tutti gli altri vivono rinchiusi, fatta eccezione per un’ora d’aria. Fra gli autori c’è Sara Innocenti, classe 1994. 

Ci siamo incontrate online, un consesso di Sare, e abbiamo provato a ragionare senza filtri e senza una direzione: ci siamo fatte guidare dai grumi delle emozioni che le cronache di Traversetolo ci hanno buttato addosso. Io ho solo preso appunti. Vi riconsegno dieci parole, senza abbellimenti. Dieci riflessioni che potranno piacere o urtare. Grazie a Sara e Sarah per loro grande libertà.

Avversaria.

La prima cosa che mi è venuta in mente è L’avversario, di Emmanuel Carrère: vado subito sulla letteratura perché di solito aiuta. Se devo essere sincera, ad un certo punto mi piacerebbe poter scrivermi con questa ragazza, Chiara, per quello stesso desiderio che ha stimolato Carrère a interrogare Jean Claude Romand, il protagonista del suo libro, che ha condotto per anni questa vita parallela… indagando che cosa si diceva in quelle giornate che lui passava nella totale solitudine, quale sia stato il suo dialogo interiore. Anche la ragazza di Traversetolo aveva un avversario interiore, che tuttavia era fuori dalla sua area di coscienza: non credo che lei abbia capito quando questa parte di sé abbia preso il sopravvento, non so in quale recesso oscuro della sua mente si sia potuto formare questo ragionamento e questa razionalizzazione – tra l’altro molto moderna – del “non posso avere un figlio, perché un figlio è un ostacolo. Non è nei miei piani”. Le donne di oggi dicono “ho dei piani, ho dei progetti, ho una carriera, ho dalle ambizioni e il figlio non è nei miei piani” oppure “un figlio sì, ma solo quando è nei miei piani”, come se nella vita tutto debba essere sotto controllo e come se ci fosse qualcosa nella vita che sia davvero sotto controllo. Mi piacerebbe appunto sentir parlare questa avversaria di Chiara, una ragazza che aveva un piano di realtà assolutamente impeccabile: ragazza perfetta, baby-sitter gentile, figlia modello, nipote accudita, studentessa serena, fidanzata amata… A rischio di dire una cosa impopolare, mi viene da pensare addirittura che questa avversaria appartenga allo spirito del tempo e ha parlato a Chiara da un punto di vista generazionale: è una generazione che ci sta dicendo che vuole disporre di tutta la sua vita a proprio consumo, a propria immagine e somiglianza, che vuole decidere quando e come di tutto. Dentro questa prospettiva, gestisce l’imprevisto esattamente come un imprevisto, un inciampo: al di là del bene del male, al di là di qualsiasi orizzonte valoriale. 
(Sarah Victoria Barberis)

È una generazione che vuole disporre di tutta la sua vita a proprio consumo, a propria immagine e somiglianza, che vuole decidere quando e come di tutto. In questa prospettiva, gestisce l’imprevisto esattamente come un imprevisto, un inciampo, al di là di qualsiasi orizzonte di bene e di male

Sarah Victoria Barberis

Stupore.

Questo episodio mi lascia lo stesso stupore che mi ha dato la storia di Carrère. È un’altra cosa rispetto a quel che è accaduto a Paderno Dugnano, perché il racconto del ragazzo totalmente staccato dalla realtà, che si sente solo, in qualche modo lo capisci…  Questa vicenda no, è come se non esistesse ancora una terminologia per dire cosa ha fatto questa ragazza, né un “cassetto” nel DSM 5 per inquadrarla. È una storia nuova, benché l’infanticidio sia vecchio come il mondo: Chiara però è molto lontana da Medea, non è in quel solco. Dico stupore, non orrore: è proprio la percezione di avere a che fare con qualcosa di nuovo. E cosa c’è di nuovo? Un nuovo piano etico, che non esisteva ancora, almeno non con questo livello di esplicitazione. Forse abbiamo iniziato a dirlo nel dibattito sull’aborto, nell’affermare che “il corpo è mio e ci faccio quello che voglio”: di questo bambino-problema me ne occupo io, in totale isolamento, senza far sapere niente a nessuno, neanche al padre. Chiara questo bambino l’aveva proprio messo in una stanza della coscienza tutta sua. Non sembra esserci spazio per il vedere la vita dell’altro come autonoma, benché almeno il secondo di questi bambini fosse nato vivo. Non ne sto facendo un tema di responsabilità individuale, perché di Chiara non so nulla: vorrei porre un problema culturale, generazionale. E non tengo fuori neanche la mia generazione, perché già noi avevamo cominciato a concepire il nostro tempo e le nostre scelte come “nostro proprio consumo”. Non mi assolvo. 
(Sarah Victoria Barberis)

Sarah Victoria Barberis



Macabro.

La prima parola che mi è venuta in mente è “macabro”, che però per me si lega – e forse questo fa paura – al concetto di maternità. Per me la maternità ha un aspetto macabro: un corpo che si deforma, una vita che ti cresce dentro e che poi esce strappando tutto. Ovvio che maternità è anche tanto altro, però c’è anche un aspetto che non è quello idilliaco che ci mostrano sui social. Mi sono tornati in mente i libri di Twilight che leggevo da adolescente, dove c’è questa maternità che ti prosciuga e toglie tutte le energie. 
(Sara Innocenti)

Per me la maternità ha un aspetto macabro: un corpo che si deforma, una vita che ti cresce dentro e che poi esce strappando tutto.

Sara Innocenti

Terrore.

La mia seconda parola è terrore. Io Chiara non la conosco, però sento quasi di capirla in quel terrore che ti immobilizza, ti paralizza, perché ti sembra che stia accadendo qualcosa che spazzerà via tutto ciò che hai. Il contesto locale e storico in cui viviamo esige che il generare sia una scelta consapevole, non può essere qualcosa che “è capitato”: l’idea che un’esperienza così trasformativa come il diventare madre possa semplicemente capitare – e magari capitare nel momento sbagliato o senza le persone giuste accanto – per me è effettivamente una cosa terrorizzante e paralizzante, qualcosa che in quel modo io non potrei assolutamente gestire, che distruggerebbe la mia vita. Pesa in questa visione anche la solitudine, che non si può contare dal numero di persone che si hanno attorno. Non sto pensando solo alle cose che una donna può perdere con una maternità non voluta: la libertà, il tempo, tutto quello che si dice solitamente. È proprio il fatto che si tratta di un’esperienza così enorme, così travolgente, così trasformativa… che viverla senza volerla fino in fondo la fa diventare una violenza troppo grande. 
(Sara Innocenti)

La maternità è un’esperienza così enorme, così travolgente, così trasformativa… che viverla senza volerla fino in fondo la fa diventare una violenza troppo grande

Sara Innocenti

Cancellare.

Mi viene una domanda. Anche qui parlando a livello di generazione, non di singoli individui. Nel libro che abbiamo scritto (il riferimento è a I giovani non capiscono niente, ndr) mettiamo a tema il cancellare. Io capisco il panico, il “congelamento”, ma io in questa vicenda vedo proprio l’azione del cancellare come elemento che caratterizza una generazione: tra la contraccezione e l’uccidere e interrare un neonato c’è una scala infinita di possibili azioni. Questa ragazza cosa ha scelto? Ha scelto di cancellare. È questo il movimento che sta arrivando?
(Sarah Victoria Barberis)

Sara Innocenti


Potere.

Un po’ sì, nel senso che in quello che è successo io ci vedo un po’ il sentire il potere di poter fare andare le cose come diciamo noi e di volerlo questo potere, di volerlo esercitare fino in fondo. Abbiamo – i più giovani forse ancora di più rispetto alla mia generazione – la convinzione di sapere cosa vogliamo, sapere cosa è giusto per noi e quindi forse siamo un po’ rigidi nel nostro camminare dritti per la nostra strada, eliminando tutto quello che potrebbe essere un ostacolo. Questo sì, effettivamente è un movimento generazionale: Instagram è pieno di meme che prendono in giro i ragazzi e le ragazze della GenZ per il loro essere molto testardi, molto sulle loro. D’altra parte però c’è anche un elemento di impotenza, legato a quel terrore che ti paralizza che dicevo prima e che ti impedisce di fare delle scelte più appropriate nei tempi in cui queste scelte sono possibili. A un certo punto è troppo tardi e se non hai fatto determinate scelte, perdi il controllo della situazione. Non puoi più fare scelte e allora smetti di mangiare, aspetti che accada quello che deve accadere e poi cancelli. 
(Sara Innocenti)

Immagine.

Quanto conta l’immagine di sé? Nella generazione Z è obbligatorio avere un profilo virtuale, che rappresenta quello che tu rimandi di te stessa. Chiara aveva un profilo di ragazza perfetta e ha continuato ad alimentare sui social la sua immagine di ragazza felice, anche dopo: va all’aperitivo, posta l’immagine di sé sorridente. Quanto è vincolante il profilo, il fatto che non ti puoi permettere di discostarti dall’immagine di te stessa che ti sei costruita? Non sto colpevolizzando, perché questa cosa dell’avere un’immagine profilo è stata costruita ben bene da strumenti di coesione sociale…
(Sarah Victoria Barberis)

Stigma.

Facciamo fatica a mostrare il cambiamento nella rappresentazione di chi siamo: ovviamente si cambia negli anni e già mostrare questo questo cambiamento è difficile. Ci permettiamo anche meno di cambiare. In adolescenza tutti ci costruiamo un po’ un personaggio, vent’anni fa questo personaggio non aveva un profilo pubblico e non aveva l’eco e la visibilità che i social gli danno, ma la dinamica non è tanto diversa. Non riesco a vedere i social come l’origine di questo male. Diciamo che se ancora oggi vediamo una gravidanza inaspettata o un aborto come qualcosa che distrugge l’immagine di una ragazza… è perché in Italia c’è ancora un’influenza della famiglia e del contesto tale per cui queste situazioni sono ancora stigmatizzanti. 
(Sara Innocenti)

“Se non lo dico non esiste” è qualcosa di pericolosissimo, perché siamo affidando al linguaggio la nostra coscienza.

Sarah Victoria Barberis

Parola.

Un tema che emerge è quello della parola. Sullo sfondo pare aleggi la convinzione che la realtà, se non la nomini, non esiste. Allora chiediamoci: qual è il potere della lingua? Su questo esiste una crepa, divisiva. C’è tutto un ambito culturale che dice che effettivamente se tu nomini qualcosa, quella cosa la fai esistere e quindi l’importanza di portare la parola su certi temi perché così fai esistere un fenomeno. Noi veniamo da una storia per cui la parola ha qualcosa di magico, ha un potere: ed è vero che noi viviamo raccontandoci e il raccontare un evento o un’esperienza permette di viverli. Però qui vedo un’altra cosa. Qui sì che vedo il macabro di cui parlava Sara. Chiara per entrare nel corpo è entrata in un silenzio completo, la parola è andata da un’altra parte. Il corpo non dialogava in nessun modo con la mente, non c’era possibilità di un dialogo cosciente: come se io avessi un animale-corpo e poi una mente. Nella mia mente avvengono le parole, nel mio corpo avviene qualcosa che non si può dire. “Se non lo dico non esiste” è qualcosa di pericolosissimo, perché siamo affidando al linguaggio la nostra coscienza: mentre invece il piano cosciente non può identificarsi con il linguaggio. Quindi anche sulle parole, occhio perché le possiamo facilmente sganciare dall’esperienza cosciente. Il nostro prossimo libro sarà dedicato al linguaggio, per chiederci se il linguaggio è potere e che potere è. Ci siamo interrogati sul bisogno primario di comunicare come possibilità di avanzare, progredire e diventare collettività perché finché non c’è suono è difficile che diventiamo collettività, finché non c’è volontà di espressione non riusciamo a essere insieme. C’è un diretto collegamento tra il silenzio e l’isolamento e dall’altra parte tra il suono, l’emissione di suoni con intenzione comunicativa e la collettività. 
(Sarah Victoria Barberis)

Verità.

Se mi chiedi un’opera che può esserci utile per riflettere su questa vicenda, mi viene in mente più che un libro un quadro: La Vérité sortant du puits, un dipinto di Jean-Léon Gérôme. C’è una donna nuda che esce da un pozzo, con un viso molto minaccioso. Ci ricorda che noi siamo sulla terra e veniamo dalla terra e effettivamente la verità viene fuori dalla terra. Sulla terra siamo soggetti a rimanere incinti se facciamo l’amore, anche se la nostra idea non è quella. Dalla terra viene sempre una verità. Una verità che non ha bisogno di parole ma che ha spesso un viso minaccioso, perché la faccia della verità nella maggior parte dei casi non ci piace. È un quadro molto inquietante, anche se avverti che richiama una parte di noi, che ci sveglia. Come Chiara, che adesso si sta risvegliando. 
(Sarah Victoria Barberis)

La verità viene sempre dalla terra. Una verità che non ha bisogno di parole ma che ha spesso un viso minaccioso

Sarah Victoria Barberis

Foto di Giovanna Pavesi /Lapresse

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