Neurodivergenze

Il linguaggio inclusivo non basta: vogliamo azioni concrete per l’accessibilità

La psicolinguista Eleonora Marocchini, ospite il 20 settembre al Festival del Pensare contemporaneo di Piacenza, spiega che c'è una grande variabilità tra i cervelli umani. E che spesso un contesto accessibile è un contesto dove tutti stanno meglio

di Veronica Rossi

piano americano di Eleonora Marocchini vestita di bianco appoggiata alla balaustra di un ponte bianco

I cervelli umani non funzionano tutti nella stessa maniera. C’è chi ha un funzionamento più comune – ed è quindi neurotipico – e chi si discosta dalla norma ed è definito “neurodivergente” (come persone autistiche, tourettiche, con Adhd o Dsa). Questa variabilità è intrinseca nella natura umana e non dovrebbe essere considerata un problema. È un dato di fatto: prenderne atto e rendere gli ambienti accessibili può essere un beneficio per tutti. Parola di Eleonora Marocchini, psicolinguista ospite il 20 settembre al Festival del Pensare contemporaneo di Piacenza.

La diversità dei funzionamenti umani, secondo lei, è una ricchezza?

La diversità tra funzionamenti neurologici e neuropsicologici è in primis un fatto. Non è un problema di per sé, come è spesso stato trattato, ma a mio avviso non è nemmeno necessariamente uno strumento di progresso, come sostengono altri, probabilmente per opporsi a una visione fortemente patologizzante e problematizzante. Io credo che sia una ricchezza allo stesso modo in cui la diversità culturale e la biodiversità sono una ricchezza. Ma cerco di non promuovere una visione “superomista” della neurodivergenza e della disabilità: non è detto che una persona che funziona in un modo significativamente differente rispetto alla norma sia effettivamente in grado di contribuire in una maniera diversa o migliore, e che sia considerata utile dalla nostra società, come capita di sentire soprattutto quando si parla di specifiche condizioni, come l’autismo, in particolare in persone con un intelletto elevato. Questo può accadere, ma non a tutte le persone neurodivergenti e non in ogni situazione. In realtà, ogni condizione umana può portare una persona a essere disabilitata dal contesto, ovvero, ogni persona se inserita in un contesto inadeguato alle proprie caratteristiche non sufficientemente accessibile, si troverà in una situazione di difficoltà. In questo senso i movimenti per la neurodiversità si inseriscono in un discorso più ampio, su qualsiasi qualsiasi possibile asse di diversità umana.

In realtà, ogni condizione umana può portare una persona a essere disabilitata dal contesto, ovvero, ogni persona se inserita in un contesto inadeguato alle proprie caratteristiche non sufficientemente accessibile, si troverà in una situazione di difficoltà

Lei si occupa anche di linguaggio. Qual è il ruolo del linguaggio nel meccanismo per il quale alcune persone vengono “disabilitate” dalla società?

Io sono psicolinguista, quindi il focus sul linguaggio l’ho tenuto per tutta la vita e realisticamente lo terrò ancora. Però devo dire che da quando ho iniziato a occuparmi estesamente di questo argomento ho cominciato quasi a infastidirmi per quanto ci concentriamo su di esso: spesso e volentieri, soprattutto in contesto aziendale, si cerca di trovare l’espressione politicamente corretta per la propria comunicazione interna ed esterna, senza cambiare nulla a livello di policy e accessibilità tanto delle carriere quanto dei servizi e dei prodotti offerti. Detto ciò, sicuramente ci sono due dimensioni, quella del “parlare di”, per cui non bisogna parlare di differenze e diversità in modo che può essere stigmatizzante o patologizzante – anche se avere una malattia non dovrebbe essere di per sé foriero di stigma – e quella del “parlare con”, che riguarda la possibilità di comunicare tra persone con neurotipi o funzionamenti neurologici diversi.


Cioè?

Tendenzialmente la comunicazione di tutti si adegua al funzionamento più comune – quello appunto neurotipico – e questo significa che spesso e volentieri le persone neurodivergenti faticano a comprendere e farsi comprendere. Quest’ultimo elemento è interessante perché si parla spesso della fatica dei neurodivergenti a farsi comprendere ma mai della fatica neurotipica a comprendere i neurodivergenti; spesso si tratta, però, di una questione di scarsa comprensione reciproca, non di deficit di una delle parti.

Spesso e volentieri, soprattutto in contesto aziendale, si cerca di trovare l’espressione politicamente corretta per la propria comunicazione interna ed esterna, senza cambiare nulla a livello di policy e accessibilità tanto delle carriere quanto dei servizi e dei prodotti offerti.

Può farmi alcuni esempi su come si possa rendere più inclusivo il linguaggio?

Per quanto riguarda il “parlare di” penso semplicemente che si dovrebbero utilizzare i termini che la persona sceglie per sé o quelli che sceglie la comunità, anche se quest’ultima, ovviamente, ha una grande varietà al suo interno. Per esempio, per quanto riguarda la comunità autistica, ci sono sondaggi internazionali che chiariscono che le persone adulte che si autorappresentano preferiscono parlare di sé come persone autistiche. Tuttavia, i nostri giornali continuano a scrivere di persone affette da autismo, di persone con autismo, o addirittura malate di autismo. Per quanto riguarda l’aspetto del “parlare con”, in linea di massima dovremmo utilizzare una comunicazione più possibile accessibile a prescindere dal funzionamento neuropsicologico dell’altra persona. Essere chiari e diretti non vuol dire necessariamente essere rudi, ma esplicitare quali sono le intenzioni comunicative. La società, invece, tende a valorizzare una comunicazione molto indiretta; poi ci si aspetta che le persone comprendano e agiscano in base a ciò che noi implichiamo. Un esempio banale può essere quello delle richieste, in contesto scolastico e lavorativo, ma anche nelle relazioni. Dire «Sarebbe bello che questa cosa fosse fatta per domani» non è esattamente «Fai questa cosa entro domani».

Come dicevamo, l’enfasi sul linguaggio può nascondere una mancanza a livello di azioni. Cosa si dovrebbe fare, invece, per una vera accessibilità?

Idealmente ogni cosa dovrebbe essere possibile farla in più modi e ogni persona dovrebbe poter scegliere quale maniera le si confaccia di più. Per esempio, la comunicazione orale o scritta – e questo ha a che fare anche col tema delle valutazioni scolastiche, della vita lavorativa e sociale e della partecipazione politica. Un’altra questione, a mio parere gigantesca, è quella della sensorialità. La maggior parte dei nostri contesti di vita sono forzatamente sociali ed estremamente rumorosi, l’illuminazione può essere aggressiva, magari anche a intermittenza. Ci sono persone – come chi è autistico, ma non solo, anche individui più sensibili di altri – che hanno un’ipersensibilità sensoriale , che non possono partecipare. Per quanto l’accessibilità universale sia impossibile da raggiungere, esistono possibilità per rendere gli ambienti più confortevoli. Questo significa, per esempio, che chi ha un’ipersensibilità uditiva dovrebbe avere uno spazio in cui fare la stessa cosa in un contesto silenzioso, chi ha problemi con le luci forti dovrebbe poter tenere gli occhiali da sole. E, se possibile, si dovrebbero evitare elementi – come l’intermittenza delle luci – che non hanno un significato di per sé. Ci sono scelte di accessibilità che danno a molte persone la possibilità di accedere a un contesto, senza togliere granché agli altri. Anche a livello di comunicazione, parlando in maniera un po’ più diretta risolveremmo prima diversi problemi. Per questo io continuo a parlare di neurodiversità, che comprende anche i cervelli tipici: è la consapevolezza che ogni singola persona funziona un po’ diversamente e alcune misure che sono fondamentali e necessarie per chi ha una disabilità possono essere utili anche per persone non disabili – o temporaneamente abili –, in linea con le preferenze di ciascuna.

In apertura, Eleonora Marocchini

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