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Parla Alberto Cairo: “Ma con i soldati no”

Il responsabile del “Progetto Ortopedico Afghanistan” della Croce Rossa internazionale fa un’analisi dei problemi del Paese, a due anni dalla fine della guerra.

di Paolo Manzo

Da Ceva, provincia di Cuneo, a Kabul, Afghanistan. Alberto Cairo di strada ne ha fatta tanta, dalla laurea in giurisprudenza conseguita a Palazzo Nuovo (Torino) all?essere, da oltre un decennio, uomo di punta della Croce Rossa internazionale nel Paese asiatico. Già, perché il dottor Cairo più che l?avvocato voleva far parte di un?organizzazione umanitaria e “partire per chissà dove”. Detto, fatto. Dopo essersi specializzato in fisioterapia ed essersi trovato a fianco, a Ginevra, anche quel Gino Strada che avrebbe poi fondato Emergency, è partito per Kabul. Quattordici anni fa. Da allora Cairo è un punto di riferimento per tutti quelli che popolano il melting pot di etnie che noi occidentali chiamiamo Afghanistan, ostinandoci a considerarlo un Paese unito. Al centro ortopedico Wazir Akbarkhan della Croce Rossa internazionale, Cairo ha realizzato la più avanzata struttura di fabbricazione e impianto di protesi per i mutilati, “anche se il problema delle mine oggi è marginale sul totale delle persone che mi arrivano in ospedale. Certo, andrà avanti per anni, ma ricevo ogni giorno 15 pazienti nuovi e di vittime di mine ce ne saranno al massimo due? Gli altri soffrono di poliomelite, paralisi cerebrali, malattie connesse alla tbc, deformità congenite, incidenti stradali”, spiega da Kabul Alberto, nel suo italiano che – nonostante gli anni afghani – lascia trasparire le radici piemontesi. Vita: Tutti parlano di Iraq, ma in Afghanistan come va? Alberto Cairo: Sa, i dopoguerra sono assai più lunghi delle guerre. E sono difficili dappertutto. Ma per fortuna l?Afghanistan non è l?Iraq, dove c?è ancora guerra? Vita: Ma i problemi non mancano. Facciamo l?elenco? Cairo: In primis la divisione del Paese. In Afghanistan ogni regione è a sé stante. Ventitré anni di guerra e due di dopoguerra hanno creato fratture a livello territoriale ed etnico. Mettere assieme tribù, etnie, territori, gente poverissima e ricchi sfondati in un sistema che ricorda molto quello feudale, è un problema enorme. A ciò si aggiunga la frammentazione militare, perché non esiste un esercito nazionale e le stesse persone di prima sono rimaste ognuna con il suo piccolo esercito. Vita: E la volontà di trasformare l?Afghanistan in un Paese unito, progetto appoggiato dalle forze della coalizione, guidate dagli Usa? Cairo: La volontà esiste ed è ammirevole. Per ora, però, è una finta. Alcuni considerano Hamid Karzai né più né meno che il sindaco di Kabul. A Mazar-i-Sharif c?è Abdul Rashid Dostum: molto forte, ha problemi però con Mohammed Atta. A Herat comanda Ismail Khan. A Jalalabad sono in tanti. Nelle zone a maggioranza pashtun, Kabul vorrebbe imporre i cosiddetti talebani moderati, ma i talebani non sono d?accordo e per entrare nell?area bisogna chiedere mille permessi ai capi clan. Certo, Kabul è più tranquilla, ma l?instabilità nel Paese è grande. E se dovessero andare via le forze della coalizione, qui scoppierebbe il caos. Vita: Lei, quindi, è assolutamente contrario all?uscita di scena del contingente internazionale? Cairo: Assolutamente contrario. Vita: E dei militari impegnati in azioni umanitarie? Cairo: Mi dà fastidio che il contingente internazionale sostenga di fare interventi umanitari e sia identificato con noi. Il punto è che noi facciamo l?umanitario come nostra unica attività. Loro come primo lavoro fanno i soldati, arrestano, ripristinano l?ordine pubblico e, poi, fanno anche l?umanitario. Le faccio un esempio. Se io trovo un talebano ferito lo curo e finisce lì. Se lo trovano loro, prima lo curano, ma poi lo arrestano. C?è differenza, e questo sovrapporsi di ruoli crea confusione. Vita: Allora che dice del fatto che la Croce Rossa italiana in Iraq viaggi sotto scorta militare? Cairo: In Iraq la Croce Rossa internazionale non viaggia sotto scorta. Chi lo fa è la Croce Rossa italiana, come dice lei. La cosa più importante per noi della Croce Rossa internazionale è non essere identificati con i militari. Se dobbiamo entrare in una città sotto assedio, prima si discute, si aspetta l?ok delle parti, e si entra. Come parte terza e non in causa. Non si viaggia sotto scorta, noi siamo vincolati all?imparzialità e le due cose – cure offerte da noi e azioni militari – devono essere e restare ben distinte. Vita: Mi pare di capire che c?è diversità di idee sul tema delle scorte tra Croce Rossa internazionale e italiana. Cairo: Senza dubbio. A Bagdad la Croce Rossa italiana è entrata coi carabinieri. Sembrava il loro braccio medico. Ma non ci si presenta facendo le crocerossine dell?esercito italiano! Reputo che la scelta politica della direzione della Croce Rossa italiana ponga grossi interrogativi. Vita: Lei è assai critico su questo punto. Cairo: Guardi che io non taccio le cose positive che ha fatto e fa la Croce Rossa italiana. In Afghanistan, per esempio, ci ha dato dei finanziamenti, che abbiamo usato all?ospedale pediatrico Indira Gandhi di Kabul, dove abbiamo aperto un reparto di fisioterapia per i bimbi con paralisi cerebrali. È un ospedale in cui si formano anche fisioterapisti locali. Bisogna sempre separare le cose buone da quelle meno buone, e questa è stata buona. Vita: Torniamo ai problemi afghani. Oltre alla frammentazione del Paese, quali sono le altre emergenze? Cairo: I bisogni sono sempre gli stessi. Manca la medicina di base, non ci sono cure né prevenzione. Manca un sistema sanitario. Più dei farmaci mancano medici e infermieri ben formati. Ecco, è la mancanza di formazione la più grande emergenza dell?Afghanistan. Assieme alla corruzione.


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