Due anni dopo
Mahsa Amini, in Iran la protesta è diventata disobbedienza civile
Domani saranno due anni dall'arresto della giovane iraniana, poi morta per le percosse. La sfida contro il regime si alimenta ora di gesti quotidiani (meno visibili, ma non meno incisivi), come ci racconta Parisa Nazari, attivista di "Donna, vita, libertà" ed esponente di "Woman life freedom"
di Alessio Nisi
Il 13 settembre 2022 Mahsa Amini, una giovane curdo-iraniana di 22 anni, venne arrestata dalla polizia morale con l’accusa di indossare l’hijab in modo non conforme alla “legge sull’obbligo del velo” in vigore nella Repubblica Islamica dell’Iran. Picchiata violentemente, venne trasferita con la forza nel centro di detenzione di Vozara a Teheran e poi portata all’ospedale di Kasra dopo essere entrata in coma. È morta tre giorni dopo, il 16 settembre. Le autorità iraniane annunciarono indagini, negando contemporaneamente qualsiasi illecito, ma questo non bastò a fermare le numerose mobilitazioni della società civile dilagate su tutto il territorio nazionale: le strade, da Saqqez a Teheran, si riempirono di donne che bruciavano gli jihab in nome della libertà.
La repressione fu spaventosa. Secondo i dati di Human Rights Activists News Agency a febbraio 2023 sono stati 530 i morti fra i manifestanti, mentre gli arresti hanno superato i 19 mila. In carcere, oltre a migliaia di manifestanti, finiscono anche molti intellettuali, giornalisti e oppositori politici.
Due anni dopo
«Oggi la forma della resistenza è diversa rispetto a due anni fa. Le manifestazioni di piazza non sono più la forma di resistenza delle donne e dei giovani iraniani nei confronti del regime». Medici, artisti, scrittori, cittadini hanno scelto piuttosto le modalità della disobbedienza civile, sempre più a viso aperto». Una sfida quotidiana alle norme sempre più restrittive imposte dall’Iran ai suoi cittadini e che si concretizza a tutti i livelli. Anche donne che ricoprono ruoli istituzionali scelgono ad esempio di non mettere il velo, spiega Parisa Nazari, 49 anni, attivista di “Donna, vita, libertà” ed esponente di “Woman life freedom”, community di cittadini di origine iraniana che si è ritrovata in Italia per portare nel nostro Paese la voce dei propri connazionali in Iran.
Le iniziative
Parisa vive in Italia dal 1996. Innamorata del suo paese, cerca di diffonderne la cultura millenaria, l’arte, la poesia e la musica attraverso iniziative interculturali. Da tempo ha coniugato questa missione culturale con l’attivismo a favore dei diritti umani. Dal 2019 ha deciso di esporsi apertamente contro il regime iraniano sostenendo le proteste dei suoi connazionali in patria. Finché è stato possibile Parisa si è recata ogni anno in Iran per poi tornare a Roma, descrivendo cosa succede oggi nel suo paese d’origine. In occasione dei due anni dalla morte di Masha Amini è pronta a mettere la faccia su una serie di iniziative: a Roma in piazza della Repubblica, poi insieme ad Amnesty International e ad altre attiviste iraniane alla Casa Internazionale delle donne.
La sfida quotidiana al regime
«Conosco molte donne medico», continua Parisa, «che si sono rifiutate di entrare in ospedale con il velo e sono state licenziate, mettendo fine di fatto alla loro carriera». Le manifestazioni di due anni fa «furono represse nel sangue, con tante attiviste e attivista che hanno pagato con la vita». Ma di molti manifestanti arrestati arbitrariamente, finiti in carcere e torturati «si sa poco. Alcuni sono stati uccisi, altri si sono suicidati. I pochi che hanno potuto raccontare hanno parlato di violenze spaventose».
Dunque la sfida quotidiana al sistema, «forse anche più logorante per tutto l’apparato», certo «meno evidente, ma più capillare». Parisa si riferisce anche «ai moltissimi artisti che non vogliono più lavorare in un sistema che è basato sulla censura. Sempre nel campo dell’arte stanno cominciando a farsi largo tanti modi di lavorare in maniera underground. Per non parlare del mondo universitario e della scuola».
Quella spaccatura tra il regime e la popolazione
Secondo l’attivista poi «le elezioni presidenziali sono stato un segno tangibile di quanto sia profonda la spaccatura tra il regime e la popolazione». La scelta di un candidato che sembrava dare segnali di apertura non ha tratto in inganno i cittadini, «al punto che giovani e donne hanno votato in minima percentuale. C’è una grande fascia della popolazione che non vuole più saperne del regime e che fa disobbedienza civile».
I messaggi degli attivisti dalle carceri
In questo contesto, per Parisa Nazari, massima attenzione deve essere rivolta ai messaggio che gli attivisti per i diritti civili in carcere a Teheran riescono a diffondere. «In questo momento le dichiarazioni che escono dalle carceri sono una sorta di guida per gli attivisti e le attiviste del movimento Donna, vita, libertà». Non a caso «a tante attiviste detenute ingiustamente viene perfino negato di telefonare ai propri familiari. Molte, in segno di protesta, fanno lo sciopero della fame». Il regime, sostiene, Nazari, «teme le donne» e, nonostante presenti aperture di facciata, «non ha nessuna intenzione di riconoscere alcuna libertà ai giovani e alle donne, continuando a insistere in politiche repressive». x
Lo distruggeranno
Ricorda poi la vicenda del rapper iraniano Toomaj Salehi. «Chiunque faccia dichiarazioni critiche nei confronti del regime» finisce nel mirino della polizia morale. Salehi era stato condannato a morte. «Ora la pena capitale è stata trasformata in anni di carcere, ma comunque non riceve cure mediche, sta molto male e hanno intenzione di distruggerlo».
Nella foto di apertura, di Mauro Scrobogna per LaPresse, la manifestazione romana dello scorso anno. Nel testo, foto di Alessio Nisi
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