Ci sono mostri che si aggirano nelle menti di molti bambini e si rintanano sotto i loro letti, terrorizzandoli. A volte questi mostri si materializzano anche in età adulta, in altre forme. È capitato a Salvatore Savasta, palermitano, e a sua moglie Alessia Pepe. La figlia Zaira di 8 anni è affetta da Adnp, sindrome rara con dismorfismo cranio-facciale, spettro autistico, difficoltà di linguaggio e disabilità intellettiva. Della sindrome di Helsmoortel-Van der Aa soffrono circa 400 persone al mondo, di cui alcune decine in Italia. Lo scorso mese di maggio Savasta ha pubblicato il libro dal titolo Il mostro sotto il letto (Giraldi Editore, 120 pagine). Si rivolge all’adorata moglie, raccontando le tappe più significative della sua vita sino alla gioia della genitorialità e le difficoltà da affrontare quotidianamente con una bambina di cui non si conosce il futuro.
L’Adnp è una malattia rarissima dello sviluppo neurologico, causata dalla mutazione di un gene. Nel suo libro lei spiega che la prima diagnosi risale al 2014. I casi accertati al momento riguardano bambini e adolescenti.
Quel gene funge da direttore d’orchestra, nel senso che dirige altri 400 geni. A ciascuno di loro dice quale nota suonare. Questa orchestra del Dna, al completo, agisce sulla sfera cerebrale, su diversi organi vitali e sulla struttura ossea. Chi ne soffre, ha problemi ad alcuni organi, fa fatica a compiere gesti semplici (per esempio passeggiare e correre) e ha una sensorialità compromessa.
Come la sta vivendo Zaira?
In un post che ho pubblicato un po’ di tempo fa, ho scritto che quasi mi spiace che lei sia perfettamente conscia dei propri limiti. Significa che, laddove si trovi in un gruppo di coetanei che l’accettano così com’è, lei è la bambina più felice del mondo. Nel momento in cui si rende conto che non riesce a fare le stesse cose che fanno gli altri, entra in crisi. Se all’improvviso il gruppo decide di giocare ad acchiapparello, lei non riesce a scappare perché non ha le forze. Capita, a volte, che venga da me e mi chieda: «Papà, perché gli altri ce la fanno e io no?». Una domanda forse banale, ma a cui è difficilissimo dare una risposta adatta per una bimba di quell’età. Lei conosce benissimo i motivi, ma rincuorarla non è semplice. Anzi, in assoluto direi che è la cosa più difficile da fare per noi genitori.
Questo accade quando sta con bambini che non conoscono i suoi limiti?
No, può accadere in qualsiasi contesto. Perché i compagni di giochi sono, appunto, bambini e possono decidere all’improvviso di cambiare il gioco. Come fanno tutti, alla loro età. Ma non tutti i giochi sono alla sua portata. Io non posso pretendere che gli altri si auto-limitino, non sarebbe naturale e neppure giusto.
È molto complicato trovare un giusto equilibrio.
Io e mia moglie siamo i due pilastri che sorreggono un arco. Ma non c’è la chiave di volta che consenta all’arco di restare fermo. Siamo in continuo movimento. Se uno di noi due crolla, l’arco cede. Non possiamo permettercelo perché l’arco è la vita di Zaira. Insomma, è un equilibrio sopra la follia.
Questa patologia vi ha costretti a modificare radicalmente le vostre abitudini, al punto che ora lei lavora di notte per potersi dedicare a Zaira nelle ore diurne.
Tante cose sono cambiate, negli ultimi anni. Abbiamo anche lasciato la nostra Sicilia e ci siamo trasferiti a Pordenone, in quanto Zaira da tempo è in cura all’Ircss materno infantile “Burlo Garofolo” di Trieste. Non potevamo andare su e giù per l’Italia come stavamo facendo, mia figlia era esausta e pure noi eravamo a pezzi. Lavorando di notte, durante la mattina e di pomeriggio posso accompagnare Zaira a scuola e poi a fare logopedia, psicomotricità, fisioterapia, doposcuola, attività motoria.
Il suo matrimonio stava per saltare: nel suo libro dedica parecchie pagine a questo aspetto per niente trascurabile.
Il titolo non si riferisce tanto alla malattia della bambina. Per me e Alessia, il grandissimo mostro che non siamo mai riusciti ad affrontare è proprio quello di riuscire a rimanere coppia, nonostante il cento per cento delle nostre risorse economiche, fisiche e psicologiche siano rivolte completamente a nostra figlia. Quando ho iniziato a scrivere questa lunga lettera, avevo appena finito di leggere il libro Come d’aria di Ada D’Adamo, che nel 2023 ha vinto il Premio Strega. Lei parlava del dualismo tra la grave malformazione cerebrale della figlia Daria e della forma tumorale che lei stessa stava sviluppando (è morta poco prima di ricevere il Premio, ndr). Ebbene, ho iniziato a leggere quel libro piangendo, ho finito che ero angosciato. Così ho deciso di fare l’opposto. Mi sono detto che c’è altro. Anche se la società, a volte inconsapevolmente, ti costringe a un isolamento sociale.
Che cosa intende?
Le faccio un esempio concreto. Spesso qualcuno, vedendo nostra figlia, esclama: «Guardandola, comunque, non si direbbe che…». Non riescono a terminare la frase, magari si accorgono della gaffe, eppure hanno ragione: a vedere Zaira, non si direbbe che abbia questa malattia perché, a differenza di tante altre sindromi che modificano i tratti del viso, l’Adnp fortunatamente non lo fa. Questa è la nostra fortuna ma anche la nostra croce. Spero che questa caratteristica la aiuti a non essere esclusa dalla società di domani. Tuttavia, capita che Zaira in pubblico si comporti in modo strano, a causa della patologia. Qualcuno la prende per una bambina capricciosa, altri ci rimproverano di essere troppo tolleranti. Non sanno. Sono convinti che sia una bambina come le altre e si arrogano il diritto di giudicarci. Se ci troviamo al ristorante e, nel tavolo a fianco, c’è un bambino con sindrome di Down che si comporta in maniera vivace, comprendiamo. Ma Zaira non viene riconosciuta come una bimba che ha una malattia genetica. Magari fa dei mugugni, oppure batte le mani sul tavolo con insistenza, e questo può creare fastidio a certe persone. Non è facile dover spiegare sempre a tutti la situazione.
È uno degli aspetti più faticosi.
Sì. Eppure, c’è molto di più. C’è la vita. Ecco perché ho deciso di impostare il libro in un modo differente rispetto a D’Adamo. Partendo da un altro fatto appurato: si fa un gran parlare di disabilità ma pochissimo di quanto essa cambi gli equilibri all’interno di una famiglia.
Il carico dei caregiver è la nuova battaglia da affrontare.
Non c’è alternativa: quando si scopre una disabilità, è un po’ come se tutta la famiglia diventasse disabile. Tuttavia, pur prendendo atto di queste enormi difficoltà, la vita va avanti e va vissuta con il sorriso e la giusta dose di ironia. In un passaggio del libro, non a caso, dico che noi viviamo con nostra figlia, e non “nonostante” nostra figlia. Questo è il punto focale della mia lettera-libro.
Una testimonianza importante per altre famiglie come la vostra.
Spero che arrivi loro il mio messaggio. Stiamo combattendo una battaglia durissima contro un mostro che non si conosce sino in fondo, ma questo non deve far scomparire il sorriso dai nostri volti. Zaira ha imparato a usare l’ironia per difendere se stessa, ride di sé e dei propri limiti.
Lei scrive: “Quando ho scoperto che Zaira era affetta da Adnp, ho iniziato un percorso di autodistruzione. Volevo scomparire e, poco per volta, ci sono riuscito”. Ancora oggi si sente così?
No, mi sentivo così in quel preciso momento in cui l’ho rilevato. Credo di aver vissuto una sorta di metabolizzazione di un lutto. Ho dovuto uccidere tutte le proiezioni future di ciò che pensavo potesse essere mia figlia da adulta. Ho dovuto ricostruire tutto da zero, con la consapevolezza che non sappiamo che cosa ci riserverà il futuro. Ricordo quando uscimmo dall’ospedale Burlo, il giorno in cui un genetista ci spiegò che non esistevano testi scientifici in merito all’Adnp. Ci disse che la bambina probabilmente non avrebbe mai parlato o camminato. In realtà, pian piano e con fatica, siamo riusciti a permetterle di parlare, camminare e fare tante altre cose. E il lutto è stato metabolizzato.
Questa sindrome è rarissima, motivo per cui ancora non c’è una vera ricerca.
È una questione di numeri, purtroppo funziona così. Eppure, ho la sensazione che qualcosa stia cambiando. Lo scorso giugno, negli Stati Uniti, è uscito un altro libro sull’Adnp, simile al mio. Non credo che sia un caso che, dopo le due pubblicazioni quasi contemporanee, nel mondo siano raddoppiati i casi accertati di Adnp. In tre mesi, in Italia siamo passati da 22 a 45 casi. C’è un luminare italiano, il dottor Angelo Selicorni, che è un genetista riconosciuto in ambito internazionale: ha deciso di riunire e visitare tutti i bambini italiani affetti da Adnp, per capire che cosa abbiano in comune tra di loro. Finalmente ora esiste un testo scientifico che parla di questa sindrome. Si è capito che il gene “colpevole” è lo stesso dell’Alzheimer ma ancora non esiste un farmaco in grado di rallentare la malattia. C’è una terapia sperimentale che, però, non ci sentiamo di approvare per Zaira, in quanto non si conoscono gli effetti collaterali.
Il 2024 potrebbe essere l’anno della svolta, dunque.
Ce lo auguriamo tutti. E spero che il mio libro abbia contribuito, anche soltanto per uno 0,1 per cento, a smuovere lo status quo. Lo dico perché, alcuni giorni fa, sono stato contattato sui social da una mamma che, dopo aver letto il mio libro, si è rivolta a un medico ed è stato appurato che sua figlia ha la sindrome di Adnp. Confesso che mi sono messo a piangere: sapere di aver aiutato anche solo una famiglia, è una cosa straordinaria. Ecco perché scrivere questo testo mi ha permesso di guardare negli occhi il mostro.
Lei è nato a Palermo, esattamente nel quartiere Zen 2, dove ha vissuto una vita difficile. Combattere contro la malattia di sua figlia è più faticoso?
No. La battaglia ovviamente è molto diversa ma la situazione è pressoché identica. Zen 2 è un enorme quartiere abusivo. Vi abitano 25mila persone ma è come se non esistesse. Non ci entra neppure la polizia. Nella carta d’identità, all’anagrafe lasciano il campo di residenza vuoto. Ci sono dinamiche che non conosce bene neppure chi ci vive. Non sai mai che cosa ti stai apprestando ad affrontare. Sai che rapine, sparatorie e omicidi sono quasi all’ordine del giorno, però non hai idea di che cosa stia affrontando realmente. Neanche la serie Gomorra ha spiegato bene certe dinamiche. Ecco, con la malattia di Zaira accade la stessa cosa. Probabilmente combattiamo la battaglia con le armi sbagliate perché non conosciamo il nostro nemico.
Lei scrive: “Le mamme sembrano tutte uguali. Hanno tutte quello sguardo in comune. Quello di chi ama, di chi spera, di chi lotta. Quello di chi è stanco, talmente tanto da non trovare la forza di confidarlo a nessuno. I padri li riconosci subito. Vivono in una sorta di strano limbo. Alcuni stanno nelle auto, con lo sguardo spento e fisso sul cellulare”.
All’interno di ogni nucleo familiare, ci sono meccanismi complicatissimi da spiegare. La mamma si fa, in qualche modo, portavoce dei diritti del figlio. L’uomo, pur non parlando (in quanto molti maschi non riescono a esternare i loro sentimenti), sa che deve essere forte sufficientemente per non far crollare tutto, però non parla, sta perennemente in silenzio. Eppure, conduce una guerra logorante che lo sfianca. La donna sembra una leonessa ma, se la guardi negli occhi, ti accorgi che non ce la fa più.
Torniamo al suo rapporto con Alessia. Il matrimonio stava davvero per saltare, ma poi siete riusciti a ritrovarvi dopo una breve separazione. Lei scrive: “L’amore è l’unica cosa che abbiamo davvero in comune”.
Abbiamo imparato a utilizzare al meglio il pochissimo tempo in comune che abbiamo ogni giorno: lei lavora di giorno, io di notte, perciò ci vediamo pochissimo. Anziché utilizzare quei pochi minuti a sfogarci reciprocamente, a lamentarci, ci dedichiamo tutte le attenzioni e le dolcezze possibili. Qualità anziché quantità. I film horror mi hanno fatto capire che muoiono sempre coloro che si separano. Se restiamo uniti, possiamo affrontare le avversità e sconfiggerle. È l’unico modo che conosco per riuscire a battere il mostro.
Chiudiamo con un passaggio del libro di Salvatore Savasta, che dedichiamo a quanti si riconoscono in questa storia. «Io, adesso, ho bisogno di dirvelo, come padre e come marito, a nome di tutti i padri e di tutti i mariti che combattono guerre silenziose contro i mostri sotto il proprio letto e che non riescono a trovare mai le parole giuste: voi due siete il regalo migliore che la vita mi abbia mai fatto».
Credits: foto gentilmente concesse dalla famiglia Savasta-Pepe
17 centesimi al giorno sono troppi?
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.