Politica

Ius Scholae: l’investimento giusto per il futuro dell’Italia

La Svimez, associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, stima che nel 2024 sono circa 48mila i bambini della scuola elementare che potrebbero acquisire il diritto alla cittadinanza italiana. «Lo Ius Scholae rappresenta un atto necessario di uguaglianza sociale», dice Luca Bianchi, direttore della Svimez

di Redazione

Lo Ius Scholae – pensato per conferire la cittadinanza ai minori stranieri, nati in Italia o arrivati prima dei 12 anni, che hanno frequentato regolarmente almeno cinque anni di studio in Italia – rappresenta un atto necessario di uguaglianza sociale nei confronti di bambini e ragazzi ai quali non è riconosciuto lo status giuridico di cittadini italiani pur condividendone cultura, educazione e appartenenza.

La Svimez, associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, stima che nel 2024  sono circa 48mila i bambini della scuola elementare che potrebbero acquisire il diritto alla cittadinanza italiana: oltre 1 su 4 risiede in Lombardia, il 12,8% in Emilia-Romagna, l’11,6% in Veneto e solo il 12,5% in tutto il Sud (dove è presente il 35,3% degli alunni della primaria).

Per il direttore generale della Svimez, Luca Bianchi: «Lo Ius Scholae rappresenta un atto necessario di uguaglianza sociale nei confronti di bambini e ragazzi ai quali non è riconosciuto lo status giuridico di cittadini italiani pur condividendone cultura, educazione e appartenenza. La riforma è anche un’opportunità concreta per costruire una società più inclusiva e coesa, che investe sull’accoglienza per il futuro del Paese. Legare l’acquisizione dei diritti di cittadinanza al completamento di un ciclo di studi potrebbe incentivare la permanenza in Italia dei giovani con background migratorio e delle loro famiglie, contribuendo a ringiovanire la popolazione, contenere la riduzione delle iscrizioni nelle scuole e la conseguente chiusura dei presidii scolastici».

I numeri

Considerando il solo ciclo della primaria, sulla base dell’attuale testo dello Ius Scholae, rientrerebbero a pieno titolo tra gli aventi diritto alla cittadinanza italiana i bambini stranieri di età compresa tra i 6 e i 10 anni che completano con successo l’intero percorso di studi nel Paese, iscrivendosi quindi al primo anno della secondaria di primo grado. Ma quanti sono i minori stranieri che studiano nelle scuole italiane della primaria? Gli ultimi dati del Ministero dell’Istruzione e del Merito (MIM) indicano un totale di 315.906, pari al 14% degli iscritti (i dati si riferiscono alla primaria statale e non includono la Valle d’Aosta e le Province Autonome di Trento e Bolzano). Di questi, 4 su 5 provengono da un Paese extracomunitario. 

La geografia

La distribuzione di bambini stranieri nella fascia di età 6-10 anni non è uniforme sul territorio nazionale mostrando una maggiore concentrazione nelle aree del Nord Italia, più attrattive in termini di opportunità occupazionali e retributive per i genitori ma anche di accessibilità e qualità dei diritti essenziali per le famiglie. L’incidenza di stranieri sugli alunni della scuola primaria varia dal massimo del 23,2% dell’Emilia-Romagna al minimo del 3,2% della Sardegna. Tra le prime due regioni per numero assoluto di alunni della primaria, Lombardia (oltre 392mila) e Campania (228mila), la differenza è di circa 17 punti percentuali: 22% contro il 4,5%.

Le differenze si ampliano considerando le 14 città metropolitane, dove lo stacco tra Nord e Sud è ancora più evidente (Fig. 2). Milano registra una percentuale del 24,5%, oltre 6 volte maggiore della città metropolitana di Napoli che si attesta a poco più del 3,6%. In generale, nessuna città metropolitana del Mezzogiorno supera la soglia del 6%, con valori compresi tra 3% (Palermo) e 5,7% (Reggio Calabria).

A livello comunale, il gradiente territoriale nell’incidenza di stranieri che frequentano la scuola primaria conferma la sostanziale spaccatura Nord/Sud, ma fa anche emergere profonde differenze nell’attrazione di popolazione immigrata all’interno delle diverse aree. Anche al Nord, la presenza di bambini stranieri si concentra, infatti, nelle città metropolitane e nelle aree a maggiore densità produttiva mentre tende a ridursi significativamente nei comuni delle aree interne (soprattutto in Piemonte e Liguria). Nelle regioni meridionali, caratterizzate mediamente da una bassa presenza di bambini stranieri, fanno eccezione alcuni comuni dell’entroterra calabrese e della provincia siciliana di Ragusa. In generale, i comuni delle regioni del Nord mostrano una presenza di bambini stranieri mediamente compresa tra il 10 e il 20%, mentre nei comuni del Centro e del Sud la percentuale non supera il 9%, risultando inferiore al 5% nelle maggior parte dei casi.

I comuni con meno di 125 bambini

Nei comuni con una sola “piccola scuola” (comuni con meno di  125 alunni), l’unico presidio scolastico attivo rischia nei prossimi anni di chiudere per un numero insufficiente di iscritti. Si tratta di circa 3 mila comuni italiani, il 38% del totale (con quote che oscillano tra il 27% del Nord-Est e il 46% del Mezzogiorno), localizzati nella maggior parte dei casi nelle aree interne delle diverse regioni.

Complessivamente, i bambini stranieri che frequentano l’unica piccola scuola del proprio comune sono circa 20mila, il 10,6% degli alunni (6-10 anni) residenti. Le differenze territoriali si confermano anche in questa tipologia di comuni: tutte le regioni del Centro-Nord presentano una quota di alunni stranieri superiore al 10% (unica eccezione il Friuli-Venezia Giulia). Nel Mezzogiorno, il dato cala in media a 5 bambini stranieri su 100 alunni, in Sardegna a 2,5. 

Sulla base di queste evidenze emerge il ruolo rilevante della partecipazione dei bambini stranieri alla scuola primaria anche nei comuni a maggior rischio di “degiovanimento”. L’attrazione di famiglie straniere già oggi rappresenta per molte aree del Paese una leva di contrasto al calo delle iscrizioni e al conseguente rischio di chiusura dei presidi scolastici. L’adozione dello Ius Scholae potrebbe rafforzare tale tendenza. 

L’incentivo alla frequenza regolare e quindi alla permanenza dei bambini stranieri interesserebbe, ad oggi, una platea di beneficiari sensibilmente più ampia nei comuni del Centro-Nord, in particolare nei casi di Emilia-Romagna e Toscana, dove l’incidenza di stranieri si avvicina al 20%. In altre parole, lo Ius Scholae potrebbe contribuire a scongiurare la chiusura di molte piccole scuole, assicurando continuità a un presidio culturale primario che, oltre a sviluppare le opportunità formative di bambini e giovani, consente di arginare i processi di spopolamento e invecchiamento. L’istruzione rappresenta un servizio essenziale la cui qualità e capillarità sono condizioni imprescindibili per uno sviluppo socialmente e territorialmente inclusivo, specialmente per le aree più deboli e remote. La granularità territoriale dell’offerta scolastica contribuisce a neutralizzare la condizione di svantaggio delle «periferie», salvaguardando le comunità che le abitano.

Le prospettive demografiche

Garantire i diritti di cittadinanza ai bambini stranieri, oltre a costituire un fondamentale strumento di inclusione, permette di migliorare le prospettive demografiche dei prossimi anni. Le previsioni demografiche dell’Istat delineano un quadro in complessivo peggioramento per l’intera struttura demografica del Paese, con una riduzione importante della platea di giovani e un contestuale ampliamento delle fasce più anziane. Questi cambiamenti, senza correttivi immediati e scelte politiche ambiziose, produrranno effetti dirompenti sui sistemi sociali e sanitari di tutti i territori, anche all’interno di orizzonti temporali relativamente stretti.

Stando alle proiezioni al 2035, la popolazione di bambini di età compresa tra 5 e i 9 anni – fascia d’età che sostanzialmente corrisponde a quella dei bambini che frequentano la primaria – dovrebbe diminuire del 18,6%, passando dagli attuali 2,5 a poco più di 2 milioni. Le variazioni saranno più marcate nel Centro e nel Mezzogiorno, con la Sardegna che potrebbe subire perdite del 34%, seguita da Lazio e Abruzzo con valori rispettivamente del 24,8% e 24,4%. A registrare le variazioni più contenute dovrebbero essere Liguria (-9,7%) e Trentino Alto Adige (-11%), mentre in tutte le altre regioni settentrionali le perdite potrebbero superare il 13%. 

Nel confronto con le fasce più anziane, emerge che nel 2023 in Italia risiedevano 90 bambini (5-9 anni) per 100 anziani (75-79 anni). Secondo le previsioni Istat, il dato calerà a soli 62 nel 2035. 

ll quadro d’insieme

 Sulla base delle statistiche illustrate, è possibile stimare – sottolinea la Svimez – il numero di bambini stranieri iscritti alla primaria che, con l’approvazione della riforma, avrebbero diritto alla cittadinanza italiana. Nel 2023 erano 60mila gli alunni stranieri iscritti all’ultimo anno della primaria. Una stima prudenziale dei potenziali beneficiari dello Ius Scholae include: tutti i bambini stranieri nati in Italia (42mila), che verosimilmente hanno completato nel Paese l’intero percorso di studio; circa un terzo di quelli nati all’estero (6mila), ipotizzando che gli altri abbiano iniziato il percorso scolastico fuori dai confini nazionali, senza maturare il requisito richiesto dalla riforma. 

Dallo Ius Scholae possono quindi derivare rilevanti effetti positivi di giustizia e coesione sociale, tenuta del sistema scolastico, e, più in generale, sulle prospettive demografiche del prossimo futuro. L’efficacia della riforma dipende dalla volontà di inserire lo strumento in un più ampio programma di rafforzamento del welfare territoriale e sostegni effettivi ai redditi e alla genitorialità

Da un lato, è necessario perseguire gli obiettivi di coesione territoriale che consentono di offrire pari opportunità lavorative e retributive, rendendo nella stessa misura attrattive tutte le aree del Paese e scongiurando il rischio di un ulteriore ampliamento dei divari sociali e economici, dei quali le differenze territoriali documentate nella distribuzione dei bambini stranieri sono solamente una delle tante manifestazioni. 

In questo quadro, occorre ribaltare la percezione comune di un pericolo immigrazione, inserendo a pieno titolo le politiche di inclusione come parte integrante di un progetto che, attraverso il miglioramento dei servizi pubblici e l’accompagnamento alla localizzazione di attività produttive, riduca l’emigrazione dei giovani e favorisca l’attrazione di nuove famiglie. È proprio la presenza di questi nuclei che consente di contrastare le dinamiche demografiche avverse e di spezzare il circolo vizioso tra spopolamento e rarefazione dei servizi pubblici essenziali. 

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