Idee People raising
Terzo settore e capitale umano, c’è bisogno di una filantropia coraggiosa
Il direttore di Ashoka Italia interviene nella discussione lanciata da Felice Scalvini sulla necessità che i grandi donatori aiutino il Non profit a risolvere la crisi di talenti che lo attanaglia: «Non possiamo pensare di “scaldare i cuori” delle giovani generazioni, parlando di servizi, gare, appalti e ribassi»
Il recente contributo di Felice Scalvini ha il proverbiale merito di cogliere due piccioni con una fava. In questo caso, i nostri piccioni sono da un lato gli attori della filantropia, dall’altro le organizzazioni del Terzo settore. E Scalvini, per rimanere nell’ambito proverbiale, cerca di parlare a suocera (Terzo settore o filantropia fate voi) affinché nuora intenda.
La tesi proposta è chiara: siamo in presenza ad una crisi vocazionale che deve necessariamente essere affrontata e per farlo abbiamo bisogno di un’azione filantropica evoluta – Scalvini parla di nudging – che dia modo alle organizzazioni di attrezzarsi per gestire al meglio i propri talenti, vecchi e nuovi. Ho trovato molto convincente il passaggio sull’inaridimento delle fonti primarie che per lunghi anni hanno irrorato le organizzazioni della società civile con talenti che provenivano dalle tante esperienze delle grandi organizzazioni di massa.
Percorsi di impegno
Quando nell’estate del 2000, iniziò il mio percorso professionale nelle organizzazioni del privato sociale, lì dentro c’era tanto delle storie collettive del lungo Novecento, chi veniva dal Movimento studentesco, chi dal pacifismo o dall’ambientalismo, chi (come me) aveva militato nei partiti, grandi o piccoli, parlamentari o extra-parlamentari, quelli che avevano fatto il sindacato confederale o di base. Non era affatto inconsueto trovare nello stesso spazio storie che sino a qualche anno prima potevano essere completamente divergenti e improvvisamente convergevano nella missione.
E, per riprendere uno spunto successivo di Flaviano Zandonai, c’erano tanti ragazzi under 25, all’epoca li chiamavamo obiettori di coscienza, che per ragioni etiche, politiche o religiose, avevano rifiutato la leva obbligatoria per svolgere un periodo lavorativo presso organizzazioni del Terzo settore. Molti di loro, una volta concluso il periodo dell’obiezione, decidevano di rimanere presso le organizzazioni oppure andare verso la cooperazione internazionale. Scalvini coglie una questione chiave, come agire una “ricomposizione” in assenza delle vecchie cinghie di trasmissione, soprattutto quando assistiamo da tempo ad una torsione innaturale delle organizzazioni verso la gestione di ciò che è necessario per sopravvivere, a discapito delle proprie missioni.
Come stare nei conflitti
Una prima suggestione, anche alla luce di quanto ho avuto modo di imparare partecipando all’ultima Summer School di Rena, è capire come creare spazi di incontro e connessione con l’attivismo giovanile. C’è un lavoro gigantesco, che interroga in primo luogo il nostro lessico (che deve necessariamente farsi più inclusivo), per poi provare a scompaginare la grammatica delle nostre prassi. E qui c’è il tema di come tornare a stare nei conflitti, dismettendo i panni del buon samaritano, per alimentare domande sociali su vecchi e nuovi diritti. Perché, lo dico molto apertamente, non possiamo pensare di “scaldare i cuori” delle giovani generazioni, parlando di servizi, gare, appalti e ribassi.
Il problema del Terzo settore
non sta nelle aggettivazioni
Riferendomi ad un secondo filone di discussione di questi giorni, spero mi perdoneranno Stefano Zamagni, Leonardo Becchetti e Luigino Bruni per la semplificazione, ma credo che il problema del Terzo settore non stia tanto nelle aggettivazioni, quanto piuttosto nell’aver preso lucciole per lanterne, quando la sussidiarietà è diventata il cavallo di Troia per la riduzione della spesa sociale e l’esternalizzazione dei servizi, e da infaticabili costruttori di domande sociali ci siamo ritrovati nell’angusto ruolo di service-provider. Non è affatto un caso che le organizzazioni oggi culturalmente più vitali, siano proprio quelle che con fatica cercano di uscire da queste dinamiche.
Il ruolo delle filantropia
Se al deficit di elaborazione politica, aggiungiamo le basse retribuzioni, come ha segnalato in una recentissima intervista Carola Carazzone, non possiamo lamentarci che i giovani non prendano in considerazione il Terzo settore come opzione di crescita professionale. Sul ruolo dei donatori, filantropici o istituzionali, Carola ha ragione da vendere quando segnala gli effetti distorsivi della logica dei progetti, rispetto all’investimento sui changemaker. E mentre continuiamo con i nostri meravigliosi quadri logici, Kpi, rendicontazioni sempre più dettagliate, il mondo attorno a noi sperimenta da tempo nuovi modelli erogativi (per esempio MacKenzie Scott).
Immaginate in Italia un donatore che bussi (lui!!!) alla nostra porta, proponendoci di investire nella nostra struttura, nella cura e sviluppo dei talenti dell’organizzazione, dandoci magari un grant pluriennale senza complicate procedure rendicontative. Si tratta di qualcosa di quasi onirico, con la stessa probabilità di successo della vincita del primo premio alla lotteria di Capodanno, eppure tutto ciò è realtà in altri contesti, dove da tempo i donatori portano avanti strategie filantropiche finalizzate al supporto della missione.
Atti coraggiosi che trascinino il sistema
E tornando ai proverbi, se è vero che la goccia scava la roccia, purtroppo non abbiamo a nostra disposizione il tempo della goccia per determinare i cambiamenti di sistema necessari a creare un nuovo assetto nella relazione tra donatori e organizzazioni.
Verba movent, exempla trahunt, le parole muovono gli esempi trascinano, sostenevano i Latini, non bastano più le parole, per quanto possano essere significative e fare awareness, oggi abbiamo bisogno di esempi, di casi studio concreti, di attori filantropici coraggiosi in grado di farsi carico della fase sperimentale per poi generare un effetto di trascinamento sul resto del sistema.
Nella foto di apertura, di Danilo Balducci per Agenzia Sintesi, il Centro Baobab di Roma.
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