Economia

3. Rivoluzione francese, la decapitazione dei corpi intermedi

La Dichiarazione dei diritti dell’uomo, in realtà, cancellò un diritto fondamentale: quello di associarsi (di Giorgio Vittadini e Luca Antonini).

di Giorgio Vittadini

Il principio di sussidiarietà è decisivo per la democrazia sostanziale. Nessuna libertà individuale, infatti, regge senza quella dimensione collettiva che si esprime attraverso i due distinti diritti che ne caratterizzano l?esercizio: quello di riunione e quello di associazione. è quest?ultimo che crea la libertà integrata della persona e completa necessariamente la dimensione individuale, mentre il primo ne qualifica la relatio ad alterum. Il nesso tra sussidiarietà, libertà e democrazia, tuttavia, raramente è stato esplorato con la dovuta attenzione. Spesso, anzi, nell?universo giuridico moderno le costruzioni si sono sviluppate ignorando o addirittura combattendo questa relazione, soprattutto quando si muovevano all?interno di concezioni di democrazia e di libertà ?ammalate? d?astrazione. I diritti, invece, sono e devono essere una realtà vivente ed è solo nel riferimento all?esperienza che si può iniziare a comprendere la concreta portata della parola ?libertà?. Quando i diritti e la libertà non sono considerati in questa dimensione esistenziale, si può facilmente verificare l?assurdo paradosso di veder convivere la più enfatica proclamazione con la più concreta negazione dell?effettività dei diritti. L?emblema di questo paradosso si dimostra nella Francia rivoluzionaria. La celebrata Dichiarazione dei diritti dell?uomo e del cittadino del 1789 solennemente afferma, all?art. 1: “Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti”, ma non menziona mai, in tutto il catalogo dei diritti, la libertà di associazione, al punto che la legge Le Chapelier, due anni dopo, poté abolire in tutta la Francia qualsiasi forma di associazione tra i cittadini esercitanti lo stesso mestiere, in conformità all?assunto roussoviano che tra Stato e individuo non dovessero esistere corpi intermedi. Nella Francia rivoluzionaria, persino le associazioni dei ?compagnones?, che raggruppavano gli operai, dovettero ritirarsi nella clandestinità e la Chiesa fu tremendamente colpita. Questa impostazione determinerà inoltre notevoli ripercussioni anche su tutto il modo della produzione giuridica. “L?urlo della Marsigliese e i mortaretti sparati per le carte dei diritti hanno troppo spesso impedito di avvertire quanto coartante e innaturale fosse il gran processo di panlegificazione e di codificazione sette-ottocentesco”, ha scritto Jean Dumont. La società civile con il suo pullulare di consuetudini e usi, con una tradizione giuridica radicata nella tradizione, attraverso la codificazione napoleonica sarà infatti espropriata dal potere del principe della sua capacità di produrre diritto. Il giacobinismo di questo periodo dimostrerà così, nel suo complesso e nelle sue declinazioni concrete, un volto decisamente autoritario. Non a caso Hannah Arendt, la grande teorica del totalitarismo, potrà affermare: “è in questo secolo creatore della nazione ed entusiasta dell?umanità, che si trovano i primi germi del razzismo che poi doveva distruggere la nazione e con essa l?idea di umanità” . Questo è il rischio sempre presente quando la libertà è concepita astrattamente, quando è riferita al cosiddetto ?stato di natura?, ovvero a una finzione filosofica funzionale a ridurre la persona ad individuo, escludendo il riferimento all?homme situé: si finisce così per difendere un uomo “che, in realtà, non esisteva in nessun luogo” (Arendt). La liberté proclamata nella celebre triade rivoluzionaria, nonostante ancora susciti tanta retorica, era paradossalmente solo una libertà senza chances: non era la libertà della persona che vive, desidera, prega, opera per un futuro migliore. All?individualità astratta, inoltre, si contrapponeva un?altra individualità, una macro individualità, che era anch?essa un?astratta finzione giuridica, quella dello Stato o della Nazione. Nel suo scritto Politiche Theologhie, Carl Schmitt conferma questa deriva ideologica dimostrando come molti concetti giuridici dell?epoca fossero concetti teologici secolarizzati. Ad esempio l?espressione giuridica “onnipotenza del legislatore” evidentemente riferiva al legislatore un attributo che prima si riferiva a Dio; analogamente la “volonté generale” di Rousseau, per cui il popolo riunito in assemblea può tutto quel che vuole, ma non può volere il male (“le peuple est toujours verteux”), traduceva in forma secolarizzata un concetto teologico. è, infatti, Rousseau che descrive la legge come “voce celeste” che detta a ciascun cittadino i precetti della ragione e descrive i ?prodigi? della legge che permettono all?uomo di non essere in contraddizione con se stesso. Al contrario della democrazia rivoluzionaria che, postulando un diretto rapporto tra l?individuo astratto e la macro individualità statale, considerava i corpi intermedi come una turbativa di questa relazione, ben altro realismo emerge nell?enciclica Mater et magistra che colloca la libertà di associazione tra i diritti fondamentali dell?uomo. La statolatria nemica della sussidiarietà attecchisce quindi sul terreno delle astrazioni e si riflette in una sfiducia nel sociale, solo perché quest?ultimo non è suscettibile di un controllo efficace. Questa logica giacobina emerge efficacemente nell?operazione con cui Crispi in Italia arrivò a pubblicizzare quelle 22mila Opere pie che erano un?espressione plurisecolare della sussidiarietà. La motivazione addotta fu, infatti, quella di evitare l?inefficienza e gli sprechi: in realtà, considerando il dato storico emerge che, nel complesso, le imposte che queste Opere versavano allo Stato erano quasi pari alle spese di gestione! Difficile quindi postulare un problema di efficienza per queste Opere che, proprio perché nascevano da un impeto ideale, riuscivano a coinvolgere una vastità di risorse altrimenti improbabile. L?astrattezza della motivazione di Crispi sarà comunque dimostrata dalla storia. L?esito della pubblicizzazione, infatti, non sarà quello di ridare una presunta efficienza a queste realtà, né quello di eliminare gli sprechi, ma al contrario quello di determinare il sostanziale spegnersi di queste espressioni della creatività sociale. Quando nel 1988 la Corte costituzionale italiana dichiarerà l?incostituzionalità della legge Crispi, le Opere pie, ormai, avevano perso la ragione d?essere e non dimostravano davvero più quell?antico smalto che ne aveva fatto una delle più importanti espressioni della welfare society italiana. Fu, pertanto, tanto pretestuosa quanto fallimentare quella logica che mosse Crispi ad accanirsi contro le Opere pie. Su questo provvedimento Crispi aveva, infatti, posto in gioco il suo ministero, minacciando le dimissioni se il provvedimento non fosse stato approvato o fosse stato alleggerito. Poteva, invece, apparire ragionevole un intervento più limitato che permettesse allo Stato di svolgere il suo compito di guidare il quadro generale dell?intervento in materia di assistenza sociale.

Giorgio Vittadini e Luca Antonini


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