Volontariato

La mia parrocchia galleggia sempre

Sono solo sette, fanno capo all’apostolato del mare. Le loro pecorelle sono i marittimi di tutto il mondo, e cambiano ogni giorno (di Giuditta Castellanza).

di Redazione

Un uomo di 40 anni e 140 chili si aggira in moto tra le banchine del porto di Genova. Arriva sotto al mercantile che ha appena attraccato, parcheggia, si arrampica sulla biscaggina con una sacca in spalla e ne ridiscende dopo un po?. Poi guarda un portacontainer qualche centinaio di metri più in là; sa che lo scalo durerà poche ore, all?equipaggio di tante nazionalità nemmeno il tempo di sbarcare a terra. Frena lo scooter ai piedi della montagna galleggiante, sale a bordo e va incontro al capitano e ai marinai. «Father?», «Yes, father James». È don Giacomo Martino, il cappellano del porto e di quei 36 chilometri di banchine dove si incontrano (o si separano) le città e gli uomini del mare. Tira fuori dalla sacca qualche lametta da barba, libri nelle diverse lingue, calendari da spuntare, qualche rosario e cellulari da prestare a chi è senza. La visita è gradita. Da Voltri alla Stazione Marittima ai Dry docks, questo prete ha macinato centinaia di navi all?anno. Ora si è un po? calmato, l?hanno fatto direttore nazionale della Stella Maris, che riunisce i cappellani di porto che, con l?aiuto di laici, accolgono e assistono i marittimi di passaggio, isolati in mare per settimane e lontani dalle famiglie per mesi. Un volontariato di frontiera, quasi sconosciuto – come i lavoratori di cui si occupa – nel Bel Paese circondato dal mare. Eppure si tratta di qualcosa come due milioni di transiti di marittimi all?anno sulle nostre coste. Stranieri ovunque Per questi cappellani (sette a tempo pieno) quei marittimi significano facce ogni giorno diverse, con problemi materiali e umani di ogni tipo. «Sono equipaggi sempre più spesso misti, arrivano da ogni parte del mondo, ma sono stranieri ovunque, invisibili per le città in cui fanno scalo, dove interessano le merci, ma non il loro carico di solitudine e in alcuni casi di sfruttamento», ci racconta don Martino, che ha anche aperto un club Stella Maris dove marinai di ogni lingua e religione possono incontrarsi alla sera, giocare a biliardo, bere qualcosa o scrivere email a casa. «Dei marittimi non si occupa nessuno», spiega don Giuseppe Mazzotta, di Augusta, in Sicilia, che tra petroliere e mercantili vede passare 3.500 navi ogni anno. «Perché sono oggi qui e domani lontani. Sono tra i lavoratori meno garantiti, soprattutto quelli dei Paesi poveri, vittime della globalizzazione e della concorrenza; è il Terzo mondo che viene da noi». 4mila euro per salpare Da quando, vent?anni fa, ha fondato dal nulla la locale Stella Maris, don Mazzotta ne ha sentite e viste di tutti i colori, sui marinai: stipendi da fame, turni massacranti, tempi a terra sempre più brevi perché improduttivi, assenza di misure di sicurezza, black list per chi crea problemi o si lamenta delle ingiustizie. Ma anche nei casi più disperati lui non li ha lasciati soli. La vicenda più recente è quella del mercantile straniero Flash, posto sotto sequestro dalle autorità nel porto di Augusta e lì abbandonato dagli armatori; una faccenda scomoda, in parte già risolta a danno, però, dell?equipaggio. Nei mesi scorsi don Mazzotta, berretto marinaro in testa e cibo nello zaino, ha dovuto fare il pendolare tra banchina e rada per non lasciar morir di fame i 15 marinai, pakistani, siriani e greci bloccati a bordo senza viveri; non potevano riprendere il mare né lasciare la nave, per non diventare clandestini e perdere ogni diritto sullo stipendio, che del resto non vedevano da mesi. «Il carico è più tutelato degli uomini», si accende il cappellano, «questi avevano persino pagato una tangente di 4mila dollari alla ?manning agency?, l?agenzia di reclutamento del loro Paese per poter lavorare su una carretta con un contratto capestro». Il suo centro Stella Maris, nel cuore della città, è diventato un modello in Italia, sempre aperto e con decine di volontari coinvolti «per sfondare il muro invisibile tra città e porto». La vicenda degli equipaggi abbandonati non è poi così rara. Anche Venezia ne ha da raccontare: padre Mario Cisotto fece lo sciopero della fame con ?i senza voce? della Frunzanesti, bagnarola della dissestata compagnia di Stato rumena. E a Porto Marghera, ferma al molo, c?è ancora la motonave egiziana Kawkab, armatore scomparso e processo in corso; questo è il terzo inverno che gli otto marinai egiziani e indonesiani passano nel ventre del cargo arrugginito. Sospesi tra terra e mare, sfamati dai volontari, hanno ottenuto un permesso di soggiorno per lavorare a terra di giorno. Alla voce ?indirizzo? c?è scritto proprio così: «Marghera, Canale Nord» (che è diventato anche il titolo di un film-documento presentato all?ultima Mostra del cinema). Sul molo col pulmino Anche da Venezia passa la recente storia della rinascita dell?apostolato di mare italiano. «La nave è l?emblema della globalizzazione, il mondo sfruttato che lambisce le nostre coste ma abbastanza lontano dalla città da poterlo ignorare», ci dice padre Cisotto, che si sta trasferendo in Piemonte ma che è stato cappellano in Laguna dal 1998. Ha girato in lungo e in largo il porto sul suo pulmino con l?elenco degli arrivi e delle partenze in mano, ha messo in piedi un numero verde per i suoi 200mila ?parrocchiani? e il quotidiano Filippino Balita per i tanti filippini che transitano qui. Ha anche cresciuto un?importante realtà di volontari laici (la Stella Maris Friends onlus) che 365 giorni l?anno vanno a trovare i marittimi a bordo, li caricano sul pulmino a Fusina, Marghera o Venezia Marittima (dove hanno aperto un internet cafè) per portarli in centro o al supermercato. Grazie a loro, padre Cisotto sa di aver aperto una breccia nel muro invisibile tra città e porto: «La gente di mare è una realtà multiculturale e quindi una ricchezza, non solo economica, per la gente di terra». Augusta, Genova, Venezia sono le tre realtà più significative per la storia della Stella Maris italiana, ma questa vicenda passa anche da Ravenna, dove c?è padre Pietro Gandolfi, Savona e Torre del Greco (dove don Franco Riviecio segue soprattutto le famiglie dei marinai del posto). E sta crescendo negli altri porti. Una vita di contraddizioni I cappellani di porto non nascono quasi mai uomini di mare, ma a un certo punto inciampano nel porto e ci restano: «Quello del porto è un mondo che o ignori o ti prende del tutto», per usare le parole di don Giuseppe da Augusta. Imparano a conoscere il mondo dei marittimi, che «vive le contraddizioni di un mondo senza più confini economici con almeno dieci anni di anticipo rispetto alla terraferma». La loro battaglia, ora, è per la ratifica della Convenzione internazionale Ilo-163 (Seafarer?s Welfare Convention, 1987) da parte dell?Italia, il trattato voluto dall?International Labour Organization che obbliga lo Stato che lo ratifica a fornire a tutti i marittimi, senza distinzione, «adeguati strumenti e servizi di assistenza sociale sia nei porti che a bordo delle navi». Sulla stessa barca Ma l?Italia nicchia (manchiamo solo noi in Europa), e così bisogni ed emergenze mettono a dura prova i cappellani e i volontari, ai quali capita di pagare un po? di tutto, dal gasolio per le navi abbandonate ai biglietti aerei per i marinai ?dimenticati?. A sentire i racconti dei cappellani sembra che il mare riesca là dove non riesce la terra, a far convivere gente dalle differenze enormi. Don Giacomo Martino fa un esempio: «In pieno conflitto, ricordo un equipaggio con serbi e croati; a terra si ammazzavano, a bordo no, non erano più bombardati da proclami di odio e soprattutto avevano il tempo di guardarsi come uomini». Come dire: siamo tutti sulla stessa barca, solo che a terra lo si dimentica.

Giuditta Castellanza

Info: Due milioni di anime per la Stella Maris

La tua casa lontano da casa» è il motto della Stella Maris, associazione che fa capo all?Apostolato del mare della Cei (la Conferenza episcopale italiana), che offre accoglienza e assistenza a terra a marittimi e pescatori (e alle loro famiglie) di qualsiasi nazionalità e fede e fa parte della Fondazione Migrantes della stessa Cei. Direttore nazionale è don Giacomo Martino, di Genova, che lavora con un direttivo nazionale (cui partecipano anche associazioni di laici, rappresentanti delle capitanerie, agenzie di manning); il 5 maggio ad Augusta si svolgerà il primo corso per diventare cappellani di porto e responsabili laici della Stella Maris. In Italia dagli anni Venti, l?Apostolato del mare ha oggi cappellani in 21 porti, il triplo rispetto a due anni fa; solo 7, però, le Stella Maris operative tutti i giorni dell?anno, con un centro di ricreazione (club) per marittimi e un gruppo di volontari. La parrocchia ?virtuale? della Stella Maris conta due milioni di marittimi che attraversano ogni giorno gli oceani. I marittimi imbarcati sul 10-15 % delle navi della flotta mondiale lavorano in condizione di schiavitù (Rapporto 2001 Icons – International Commission on Shipping); la concorrenza continua ad aumentare (e per qualcuno peggiorerà con l?ingresso dei cinesi, che hanno un alto livello di sfruttamento), si riducono gli equipaggi e i tempi di scalo. Il sindacato di riferimento è l?Itf, International Transport Workers? Federation. Oltre ai cappellani di porto ci sono quelli di bordo, imbarcati sulle navi da crociera; attualmente quelli italiani sono 9 . Potrebbero sembrare dei privilegiati,ma loro assicurano di no: prima di occuparsi del porto, don Giacomo Martino è stato cappellano di bordo; imbarcatosi per curare un?allergia, ha passato sei anni in mare con gli equipaggi della Costa Crociere. Una volta si è rifiutato di dire messe separate per passeggeri ed equipaggio: «Cappellano di bordo sì, ma non di corte. Anche se molti pensano che a bordo facciamo la bella vita». Apostolato del mare tel. 010.265837; www.aposmar.net

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