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Rwanda: Intervista esclusiva al nuovo Nunzio apostolico

Al termine del periodo commemorativo, Vita ha raccolto le prime impressioni di Mons. Angelo Pecorari, giunto poche settimane fa a Kigali come rappresentante diplomatico della Sante Sede

di Joshua Massarenti

KIGALI (Rwanda) – Mons. Angelo Pecorari è il nuovo Nunzio apostolico del Rwanda. E? giunto a Kigali il 23 marzo scorso dopo aver trascorso molti anni in Africa occidentale, tra Sierra Leone, Liberia e Gambia. La scelta fatta dalla Santa Sede di mandare in Rwanda un rappresentante diplomatico dotato di una forte esperienza nel mondo africano anglofono coincide con la recente inclusione di questo piccolo paese dell?Africa centrale nella sfera geopolitica d?influenza anglofona.

Vita: Monsignore, i rapporti tra il Vaticano e il regime rwandese sono stati piuttosto altalenanti negli ultimi dieci anni. Come giudica i suoi primi contatti con le autorità locali?

Mons. Pecorari: Direi ottimi. Questo per lo meno è la mia sensazione da piccoli ma importanti segni. Al mio arrivo all?aeroporto di Kigali la presidenza mi ha mandato un?auto per accompagnarmi alla nunziatura. Un gesto che solitamente non si fa da queste parti. Pari modo, la mia richiesta di credenziali è stata accolta in tempi molto rapidi. Altri segni importanti gli ho raccolti durante la Conferenza episcopale del Rwanda alla quale hanno assistito il primo ministro rwandese e soprattutto il Presidente della Repubblica Paul Kagame. Quest?ultimo ha voluto sottolineare i buoni rapporti consolidati negli ultimi anni tra il Rwanda e la Santa Sede. Durante le commemorazioni del 7 aprile scorso, tutti si aspettavano un attacco da parte delle autorità rwandesi contro il Vaticano. Nella Conferenza internazionale per la prevenzione contro il genocidio, un autore ha provato ad introdurre nella risoluzione finale una condanna al ruolo della Chiesa cattolica in Rwanda. Non solo la proposta è stata respinta, ma lo stesso Kagame non ha emesso nessuna condanna nei nostri confronti. Infine, durante il periodo commemorativo, mi è giunta notizia che due preti rwandesi sono stati liberati. Ecco, questi sono segni importanti da un punto di vista diplomatico. Tuttavia, non bisogna farsi troppe illusioni. Finora, ho cercato di cogliere una serie di opportunità importanti.

Vita: Che messaggio ha portato dal Vaticano?

Mons. Pecorari: Da parte mia, ho sottolineato alle autorità locali che intrattenere buoni rapporti diplomatici non significa che questi rapporti non possano essere migliorati. Il Rwanda è oggi al cuore delle preoccupazioni del Papa e della Santa Sede in quanto questo è il paese più cattolico dell?intero continente africano. Per molti rwandesi cattolici, il Papa è il loro vero capo. Nel contempo, ho fatto capire che il Vaticano rappresenta una garanzia agli occhi della Comunità Internazionale.

Vita: Che cosa intende dire?

Mons. Pecorari: Volgio solo dire che il Papa si è fatto garante del buon cammino di molti popoli sulla strada dei diritti umani e della democrazia. Intraprendere questa strada per le autorità di questa nazione significa poter contare sull?appoggio della Santa Sede. In caso contrario, il Papa incontrerà più difficoltà nel potersi porre come garante del Rwanda presso la Comunità internazionale.

Vita: Tra gli aspetti più scoinvolgenti del genocidio rwandese è il massacro perpetrato da cristiani contro altri cristiani. Lo sterminio si è addirittura compiuto all?interno delle chiese. Che tipo di colpe la Chiesa cattolica si può assumere in questa vicenda?

Mons. Pecorari: Bisogna distinguere tra le azioni della Santa Sede e quelle intraprese dalle Chise locali. Il Vaticano non può certo controllarle tutte. Fin dal 1990, la Santa Sede intuiva quanto la situazione fosse esplosiva dando indizioni molto precise sulle scelte da operare: distaccarsi da tutte quelle espressioni politiche e partitiche che tendevano ad identificare un vescovo con un gruppo particolare. Mi riferisco ad esempio all?arcivescovo di Kigali il quale era membro del comitato centrale dell?ex partito unico. Da parte mia, rimango convinto che la chiesa rwandese non abbia saputo prendere in mano la questione etnica.

Vita: Com?è possibile ricostruire un sentimento di appartenenza comune alla fede cattolica?

Mons. Pecorari: Incontrando i vescovi, ho detto loro che bisogna guardare avanti. Il futuro di questo popolo e dei cattolici in particolare deve costruirsi nel segno dell?unità e della riconciliazione. Nel contempo, i vescovi hanno bisogno di essere sostenuti dalle Chiese sorelle. Da quelle europee in particolare. E non solo in termini finanziari, ma anche sul piano psicologico. Da parte loro, i vescovi mi hanno chiesto ascolto ancor prima di offrire loro aiuti concreti.

Vita: All?indomani del genocidio, molti rwandesi hanno aderito a sette protestanti oppure all?Islam. Questo fenomeno non le suscita qualche timore?

Mons. Pecorari: Vede, la parola genocidio appare troppo spesso molto astratta e indolore. In Rwanda, il genocidio significa che il tuo vicino con cui per anni ti sei recato a messa è improvvisamente andato ad uccidere tuo fratello oppure tua sorella in nome dell?appartenenza etnica. Ancora oggi, questo sentimento è molto presente fra i rwandesi, come in tutto il resto dell?Africa. Paradossalmente, il genocidio ha avuto un effetto benefico, se così si può dire, facendo capire che il ?Dio etnico? non deve avere la meglio sul ?Dio cristiano?. Il ?Dio etnico? ha condotto i rwandesi a ripiegarsi nei particolarismi identitari, allorquando la fede cattolica ha un respiro molto più ampio: allarga i rapporti e unisce le persone.
Qui, le sette americane sono in piena espansione, più dell?Islam. Debbo però sottolineare che ultimamente nella capitale molti rwandesi tornano nella Chiesa cattolica. Queste sette sono più radicate in zone povere, vicine all?Uganda perché area anglofona. Altresì si diffondono laddove vi sono pochi sacerdoti. La loro profusione dovrebbe essere fonte di preoccupazione perché alcuni rwandesi abbandonano la casa della Chiesa per aderire ad una fede fatta su misura. Tornando al particolare, si rimane più esposti alle derive etniche in quanto si tende a perdere il senso di appartenenza ad una comunità molto estesa come quella ecclesiale. Per questo motivo, sono molto meno preoccupato della progressione della fede islamica. A suo modo, l’Islam offre un senso di appartenenza ad una comunità allargata.

Vita: Che cosa significa per lei la parola ricostruzione in un paese come il Rwanda?

Mons. Pecorari: Ricostruire in Rwanda significa innanzitutto fare giustizia nella carità: non c?è giustizia senza carità, ma viceversa non c?è carità senza perdono. Dopo il 1994, le diocesi hanno organizzato dei sinodi, ovvero dei momenti in cui la gente si riunisce per interrogarsi. Interrogarsi per capire come mai si è sprofondati in una tale tragedia umana. Oggi, i tribunali della Gacaca sono in qualche modo chiamati a trovare una soluzione per gente costretta nel tornare a vivere insieme, sulle stesse colline. Il problema è che c?è ancora molta paura di convivere nuovamente assieme. Personalmente, mi chiedo come possiamo pretendere che questa gente riesca a trovare un coraggio che in molte parti dell?Europa, penso ai Balcani, non si è riuscito a trovare dopo 50 anni.

Vita: Cosa può fare la Santa Sede per l?Unità e la Riconciliazione del popolo rwandese?

Mons. Pecorari: Il Vaticano può aiutare a far riscoprire la fede cattolica, a ricredere nei valori della Comunione e dell’universalità. Valori che possono trionfare sull?etnismo. Noi cattolici siamo maggioritari in questo paese, quindi su di noi incombono responsabilità maggiori.

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