Giustizia

Il garante del Piemonte: «Troppo facile bollare come “rivolte” le proteste dei detenuti: in carcere condizioni insostenibili»

In queste settimane il Lorusso e Cutugno di Torino è l'epicentro delle proteste per le condizioni di vita nei penitenziari italiani. Cosa sta succedendo? Parla il garante Bruno Mellano: «Non semplifichiamo tutto sotto il termine “rivolta”. Distinguiamo gli episodi violenti da proteste e manifestazioni necessarie a richiamare l'attenzione su luoghi di grande sofferenza»

di Ilaria Dioguardi

Sei agenti feriti e due intossicati, in seguito ai disordini che si sono verificati a Ferragosto nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino, detto anche Le Vallette. «Non si tratta di una rivolta. Impariamo a usare le parole giuste», dice Bruno Mellano, garante delle persone private della libertà personale del Piemonte. «Nella casa circondariale di Torino dall’inizio dell’estate si susseguono tensioni, episodi violenti ma anche proteste in molti casi non violente e di dialogo. Ci tengo a dirlo perché è un po’ facile semplificare tutto sotto il termine “rivolta”. Credo che sarebbe un’azione culturalmente importante quella di distinguere gli episodi violenti (che pure ci sono stati) da manifestazioni più corali e di ampia partecipazione che sono volte a cercare di attirare l’attenzione sulla situazione, in generale, dell’esecuzione penale, in questo momento in Italia e, nello specifico, nella casa circondariale di Torino. Che è, indubbiamente, il carcere più complesso d’Italia.

Perché è il carcere più complesso d’Italia?

A fronte di una capienza regolamentare di 1.077 posti, la presenza giornaliera dei detenuti è attorno ai 1.500. I posti disponibili si sono ridotti sotto i mille, nelle ultime settimane, a causa di episodi che hanno visto rendere fuori uso un certo numero di celle. Il sovraffollamento è al 136%.

Al carcere Lorusso e Cutugno, la direttrice del carcere Elena Lombardi Vallauri, il garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Felice Maurizio D’Ettore e il garante delle persone private della libertà personale del Piemonte Bruno Mellano

Oltre al sovraffollamento, quali altri fattori fanno del Lorusso e Cutugno l’istituto penitenziario «più complesso d’Italia»?

Una situazione specifica di una casa circondariale che è una sedimentazione di una scelta anche edilizia, costruttiva, penitenziaria che ha fatto aggregare in vari padiglioni un unico carcere. Abbiamo l’esperienza di Rebibbia, a Roma, con vari direttori, vari comandanti, varie organizzazioni. Invece, il carcere di Torino ha un unico direttore, una direzione fatta con una vice direttrice “a scavalco” Assuntina Di Rienzo, che è direttrice della casa di reclusione di Fossano (in provincia di Cuneo) e che si divide tra i due istituti. In questo momento, al Lorusso e Cutugno, non c’è il comandante della Polizia penitenziaria. Negli ultimi anni abbiamo avuto un’estrema carenza di ispettori e di sovrintendenti di Polizia penitenziaria, quindi di corpi intermedi. Anche l’immissione che c’è stata di nuovi agenti a seguito dei corsi di formazione fa sì che i nuovi ingressi, soprattutto d’estate, nei turni festivi e notturni, siano gli unici che presidiano la struttura. Quindi, una difficoltà strutturale che si unisce a una difficoltà organizzativa e di personale.

In questo quadro, c’è l’espressione di una casa circondariale che è diventata tutt’altro. Può spiegarci?

Le case circondariali sono luoghi per detenuti con pene inferiori ai cinque anni, in attesa di giudizi ricorrenti o appellanti. Noi abbiamo molti detenuti definitivi, anche con pene lunghe, con circuiti detentivi che non dovrebbero stare a Torino, come l’Alta sicurezza, i collaboratori di giustizia e, nell’ambito del presidio sanitario, persino al 41 bis. Come garante regionale, anche con le interlocuzioni avute con il ministro della Giustizia Carlo Nordio e con il vice ministro Francesco Paolo Sisto, ho più volte affermato di rappresentare le difficoltà ma anche le scelte organizzative sbagliate. L’istituto penitenziario di Torino deve essere semplificato.

È  un po’ facile semplificare tutto sotto il termine “rivolta”. Credo che sarebbe un’azione culturalmente importante quella di distinguere gli episodi violenti da manifestazioni più corali e di ampia partecipazione che sono volte a cercare di attirare l’attenzione

Bruno Mellano

Torniamo ai disordini dei giorni scorsi…

Credo siano anche, in parte, la matrice di una serie di problematiche e di tensioni che sono endemiche nel carcere. Nel momento in cui ci sono tanti circuiti penitenziari, tante situazioni da gestire singolarmente e separatamente, diventa difficilissimo riuscire a prendere in carico le persone nuove giunte, oppure transitate da altri istituti, oppure quelle problematiche provenienti da altre carceri, che vengono a Torino per delle analisi psichiatriche o psicologiche e che rimangono qui.

L’estate in carcere è il periodo peggiore.

Da metà giugno a metà settembre, il periodo in cui si addensa il maggior numero di suicidi nelle carceri italiane (già 66 nel 2024, ndr), è il periodo più drammatico. Non ci sono attività formative né didattiche, molte attività di volontariato vengono interrotte o sospese perché manca il personale che possa seguirle, dal punto di vista della sicurezza. Nei mesi estivi, più che un limbo, c’è nelle carceri italiane un girone infernale che non può che dare i suoi nefasti frutti di tensione, di difficoltà di presa in carico. Abbiamo registrato anche in Piemonte (e anche a Torino) episodi sanzionabili di violenza. Ma, contrariamente a quello che è successo all’Istituto penale minorile Ferrante Aporti, non possiamo dire che alle Vallette nei giorni scorsi ci sia stata una rivolta, una protesta violenta generalizzata, un contesto di perdita del controllo della situazione. Quello che registriamo è una tensione, una temperatura che si alza che diventa difficilmente gestibile in un periodo estivo con il caldo, con la mancanza di attività, con la mancanza di personale specifico per il periodo delle ferie e una difficoltà a gestire tutte le criticità.

Nei mesi estivi, più che un limbo, c’è nelle carceri italiane un girone infernale che non può che dare i suoi nefasti frutti di tensione, di difficoltà di presa in carico

Bruno Mellano

Nei disordini di Ferragosto alle Vallette ci sono stati sei agenti feriti e due intossicati dal fumo.

Nel momento in cui c’è una lite tra detenuti, una rissa, gli agenti di turno cercano di intervenire nell’immediato e, per dividere i litiganti, può capitare che si rimanga feriti. Paradossalmente, quando ci sono le rivolte è meno frequente che gli agenti si feriscano perché la Polizia penitenziaria si organizza chiamando rinforzi da altri padiglioni o da altri istituti. L’intossicazione che spesso è denunciata dagli agenti (nel caso recente di Torino, due agenti sono rimasti intossicati) avviene quando un detenuto dà fuoco ad un materasso, a un cuscino, a delle lenzuola. Materassi e cuscini sono ignifughi, quindi fanno essenzialmente fumo perché i detenuti ci buttano sopra un vestito, della carta. Gli agenti intervengono per evitare conseguenze per altri detenuti o per altro personale. Le faccio un esempio di come i detenuti stanno cercando di protestare in modo non violento.


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Mi dica.

Alle Vallette di Torino abbiamo avuto i detenuti del padiglione C (che sono circa 450), diventati famosi di recente per un video in cui si vedeva la vandalizzazione della sezione, che hanno firmato un appello e fatto una segnalazione delle problematiche strutturali e gestionali del carcere. Lo stesso hanno fatto i detenuti del padiglione B. Anche le donne (che sono 130) della sezione femminile del carcere di Torino hanno scritto una lettera (pubblicata da La Stampa, ndr) in cui hanno preannunciato lo sciopero della fame quando terminerà la pausa estiva del Parlamento. I detenuti del padiglione C, a fine luglio, per differenziarsi e segnalare la diversità di approccio da detenuti che in alcune occasioni avevano causato danni a persone e cose, hanno messo in campo una dimostrazione di protesta non violenta. Sono scesi alle 9 in cortile e, anziché tornare in cella alle 11 per tornare fuori alle 13, sono rimasti fino alle 18, quando sono rientrati in sezione “cotti” dal sole. Faccio notare che i detenuti possono usufruire dell’”ora d’aria”, anche d’estate, dalle 9 alle 11 e dalle 13 alle 15. Ribadisco, lo dico soprattutto a voi giornalisti: dobbiamo trovare le parole giuste per descrivere.

Ci affidiamo al Presidente Mattarella affinché “scuota” l’indifferenza dei decisori

Detenute della Casa circondariale Lorusso Cutugno

Per descrivere cosa?

Per spiegare la differenza tra le rivolte, gli episodi gravi ma singoli di violenza, i tentativi di porre all’attenzione della politica e delle istituzioni territoriali che c’è un regolamento penitenziario da applicare, delle norme che permettono di fare cose diverse rispetto a quella detenzione che ha poco senso e poco margine di successo “qui e ora”. Dopo gli appelli dei detenuti dei padiglioni B e C, che dicevo pocanzi, ho contattato il garante nazionale Maurizio Felice D’Ettore per invitarlo a venire a colloquiare con questi detenuti e, dall’altro, il presidente del Tribunale di sorveglianza di Torino Marco Viglino. Quest’ultimo perché una parte delle questioni legate ai permessi, alle pene alternative sono già ora possibili con dei “paletti” che devono essere risolti. Se c’è bisogno di una casa, di un lavoro, di una rete sociale occorre affiancare all’amministrazione penitenziaria progetti, iniziative, sostegni che devono essere garantiti dalle istituzioni del territorio. Non ha senso accomunare le tensioni delle carceri di Torino a quelle di Ivrea e Biella, come è stato fatto in questi giorni.

Perché?

Nei casi di Ivrea e Biella si trattava di proteste individuali legate a una situazione, nel primo caso, di sostegno dei detenuti a un loro compagno che chiedeva un trasferimento, nel secondo caso, di sostegno dei detenuti ad un detenuto con un problema sanitario che, secondo alcune fonti, non era preso in carico.

Le detenute del carcere di Torino, nella lettera indirizzata a La Stampa a cui faceva cenno, scrivono che inizieranno lo «sciopero della fame ad oltranza e a staffetta, pacificamente affinché venga concessa la liberazione anticipata speciale o qualsiasi misura che riduca il sovraffollamento e riporti respiro a tutta la comunità penitenziaria». Le detenute proseguono affermando che il decreto carceri «non serve a nulla» e fanno appello al Presidente della Repubblica: «Ci affidiamo al Presidente Mattarella affinché “scuota” l’indifferenza dei decisori».

Come Conferenza nazionale dei garanti territoriali, che raggruppa tutti i garanti regionali, comunali e provinciali abbiamo preso sul serio le parole del Presidente della Repubblica Mattarella che il 18 marzo scorso, ricevendo al Viminale i rappresentanti della Polizia penitenziaria, aveva indicato nel problema del sovraffollamento e nella questione drammatica dei suicidi due elementi su cui la politica doveva dare delle risposte. Come Conferenza abbiamo fatto iniziative tutti i mesi da marzo, il 18 di ogni mese, per richiamare quelle parole, quell’insegnamento di Mattarella.

Dire che mandiamo in comunità terapeutica circa 15mila detenuti tossicodipendenti o all’estero il 30% dei detenuti stranieri possiamo discuterlo, ma non è una questione che risolve i problemi “qui e ora”

Bruno Mellano

Cosa pensa del decreto carceri appena diventato legge?

Come molti anche noi, come garanti, siamo delusi dal decreto carceri. L’uso del decreto “di necessità e di urgenza” faceva presupporre una consapevolezza del governo di una necessità di intervento urgente e necessario. Si tratta di un decreto che in parte non affronta le questioni, in parte quando le affronta rimanda a circolari e regolamenti come per le telefonate (aumentate da quattro a sei al mese, ndr). Noi abbiamo avuto il 7 agosto un importante confronto con il ministro Nordio e con il vice ministro Sisto a cui abbiamo riportato questa attesa frustrata di un decreto che non affrontava delle questioni. Abbiamo anche ribadito che la scelta di intervenire sulla liberazione anticipata, ampliando uno strumento già esistente che ha dato buona prova di sé, non deve essere di parte ma una scelta lungimirante.

Per quanto riguarda la mancanza di personale?

Abbiamo riferito al ministro che mancano i magistrati di sorveglianza, i cancellieri ai magistrati di sorveglianza, gli addetti e gli operatori di segreteria. In Piemonte abbiamo attivato in questi mesi volontari negli uffici di sorveglianza di Vercelli, Novara, Cuneo e adesso stiamo facendo un appello per Torino. Se c’è, al momento attuale, la questione della liberazione anticipata bisogna trovare la modalità per rendere questo un meccanismo che ampli il target delle persone che riescono ad uscire. Abbiamo voluto segnalare che, di oltre 61mila detenuti presenti nelle carceri italiane, circa 21mila hanno un residuo pena inferiore ai tre anni e 8mila una pena inferiore ad un anno. Possiamo cominciare a riflettere su cosa fare, almeno per quegli 8mila? Dire che mandiamo in comunità terapeutica circa 15mila detenuti tossicodipendenti o all’estero il 30% dei detenuti stranieri possiamo discuterlo ma non è una questione che risolve i problemi “qui e ora”.

Cosa pensa dei 1000 agenti di Polizia penitenziaria promessi dal decreto nei prossimi due anni?

La situazione è tale per cui gli agenti che arrivano quasi non riescono a coprire gli agenti che vengono traferiti o che vanno in pensione. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Russo ha affermato che sono consapevoli che, accanto agli agenti, servirebbero anche altri 1000 educatori. Lo sottoscrivo, altrimenti non si riesce a impostare quella progettualità che ci permette di abbattere la recidiva. La sicurezza esterna si garantisce anche con un carcere che riesce a ridurre la recidiva, che ha una media del 68%. Noi sappiamo che abbiamo percorsi, progettualità, iniziative con il territorio che riescono ad abbassare la recidiva al 20%, al 10% e, in alcuni casi, come per l’esperienza del Polo universitario dell’istituto Lorusso e Cutugno di Torino, vicino allo 0%.

Foto in apertura di Matthew Ansley su Unsplash. Foto dell’intervistato.


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