Volontariato

Come si parla a un kamikaze

Far breccia nel cuore dei ragazzini che aspirano a diventare bombe umane non è impossibile. Decine di cooperanti italiani ci provano ogni giorno.

di Carlotta Jesi

Kamikaze non si nasce, si diventa. E la strada che porta al martirio non è a senso unico. Lo ha provato Hussam Abdu, il 16enne palestinese che, a fine marzo, ha invertito il suo destino pochi istanti prima di diventare una bomba umana gridando in faccia ai soldati israeliani: “Non voglio farmi esplodere!”. Lo dimostrano i tanti italiani che cercano di fare breccia nel cuore degli aspiranti kamikaze. Uno sforzo che Michela Bonsignorio e Adriano Lostia, 29 e 30 anni, cooperanti delle ong Cric ed EducAid, hanno ribattezzato resilienza. “Come la capacità del metallo di tornare al suo colore originale dopo uno choc”, spiega Michela dal suo ufficio di Gaza city. Trecentocinquanta chilometri quadrati di città – abitata da 1,3 milioni di palestinesi che nell?80% dei casi sono poveri e nel 70% disoccupati – dove il 35% dei ragazzi tra i 12 e i 13 anni dichiara di essere pronto a morire da martire. E dove viene difficile dargli torto. Almeno a scorrere i dati sui bambini palestinesi raccolti dal Centro salute mentale di Gaza: l?83,2% ha assistito a sparatorie e omicidi, il 66,9% ha visto morire qualcuno in scontri armati, il 32,7% soffre di stress da trauma. Come si fa a parlare di pace e di speranza in un posto così? Far innamorare i bimbi Adriano non si lascia spaventare dalle percentuali: “Sembra che gli arabi non abbiano paura della morte. Ma, spesso, andare a farsi saltare è l?ultimo atto di chi non ha più fiducia in se stesso. Atto cui rispondo cercando di far innamorare della vita: se impari ad amare qualcun altro, poi vuoi più bene anche a te stesso”. È ai bambini dell?asilo che Adriano insegna a innamorarsi. “Di piante e di animali. Prendersi cura di loro significa stabilire un rapporto affettivo e di responsabilità. Significa provare gioia nel vedere un altro essere vivente che cresce”. Invece di morire. Come è successo ai palestinesi uccisi dai soldati israeliani ricordati con foto formato gigante nei 20 asili di Rafha e Khan Yunis dove lavorano Michela e Adriano. O come è successo ai kamikaze di Hamas ritratti sulle figurine che i ragazzi delle medie si scambiano a scuola. Hamas, già. “Nella Striscia di Gaza è, prima di tutto, il nome dell?organizzazione che costruisce asili, che aiuta i poveri e gli orfani”, dice Michela. Azioni umanitarie a scopo di proselitismo? Ameer Abu al-Amreen, che a 30 anni dirige il braccio filantropico di Hamas, ha dichiarato al Times che si tratta di “una normalissima dawa islamica, di solidarietà”. Un martire come modello Ad Hamas e alla mancanza di prospettive, le ong italiane rispondono con la resilienza. “Aiutiamo i bambini a vivere e comportarsi come tali portando nei loro asili e nei campi profughi autobus pieni di giochi. Cerchiamo di spiegare loro che la liberazione dagli occupanti non deve pesare sulle loro spalle”, continua la cooperante. È uno sforzo che passa necessariamente per gli insegnanti. “Gli unici adulti di riferimento per i ragazzini palestinesi che vedono i loro padri e le loro madri umiliati e strattonati dai soldati israeliani”, spiega Adriano. “Che esempio possono essere genitori così? La figura di riferimento diventa facilmente l?eroe kamikaze. Per questo facciamo una formazione continua agli insegnanti locali”. Sarà. Ma bastano l?amore per le piante, i giochi e un buon training a maestri e professori per convincere i baby kamikaze a reinventarsi un destino? Adriano ci spera: “Una volta un palestinese mi ha detto: se un bambino da piccolo sa scegliere il proprio gioco, da grande saprà scegliere il proprio presidente”. “Non sei una nullità” Sono una quindicina le ong italiane impegnate in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Alcune con presidi di pace, come quelli che i volontari di Assopace garantiscono tutto l?anno nell?area di Nablus. Altre offrendo assistenza medica e psicologica alle famiglie più vulnerabili, come fanno i tre team di Medici senza frontiere di stanza a Jenin, Hebron e Gaza. Obiettivo: “Prima di tutto, ascoltare i problemi”, spiega Donatella Paioro che, per sei mesi, ha lavorato a Hebron come psicologa facendo visite a domicilio nelle case occupate dai soldati israeliani. Il primo trauma di chi vive con un carro armato in giardino e uomini in divisa sul tetto, svela Donatella, sono la perdita di dignità e la depressione. Contro cui, per ora, esiste un unico antidoto: “Rinforzare ciò che di positivo è rimasto in queste persone umiliate. Ricordo un padre che aveva perso il lavoro e non poteva più mantenere la famiglia: ?Sono una nullità?, diceva. Finché un giorno mi ha confessato di essere l?unico in grado di far addormentare i figli. Non era affatto inutile”. Con i padri palestinesi – “che qui possono avere anche 20 anni, tre figli, padri e nonni da mantenere”, spiega Valeria Fabbroni del Coopi – si lavora anche nel Nord della Cisgiordania. Nei distretti di Jenin, Qalqilyah e Nablus, dove la seconda Intifada e l?impossibilità di andare a lavorare in Israele hanno creato una disoccupazione media del 75%. “Una percentuale che combattiamo con progetti rivolti ai capi famiglia coinvolti in piccoli lavori di ristrutturazione e di muratura che li aiutano ad avere un reddito e, con esso, a recuperare la loro dignità e un ruolo nella società”, dice Valeria. Ma i suoi progetti pratici di lotta alla disoccupazione hanno anche un obiettivo più alto: “Offrire ai palestinesi alternative concrete alla violenza e al martirio”. Computer e sport Alternative che le ong di stanza nei territori palestinesi cercano di offrire anche agli adolescenti. “Sotto forma di attività sportive, corsi di computer e cineforum per offrire un futuro di partecipazione costruttiva personale e sociale”, elenca Piera Redaelli di Terre des hommes international che, attualmente, ha due operatori italiani impegnati nella zona di Ramallah. Ma anche sotto forma di centri socio culturali e sportivi, come quelli che un giovane della Caritas, sta costruendo nei villaggi più isolati dei territori occupati. Cooperanti illegali Da più di un anno, quasi tutti i giorni, un cooperante fa avanti e indietro da Gerusalemme ai villaggi palestinesi praticamente circondati dal muro, voluto dal premier israeliano Ariel Sharon, in cui vivono ragazzi “che non possono andare da nessuna parte: né a scuola, né al lavoro”. Ragazzi per cui questo cooperante organizza corsi di informatica, di inglese e di ebraico ma, soprattutto, ai quali cerca di insegnare un senso di autocritica. “La società palestinese, al suo interno, è molto divisa. In un certo senso le diverse etnie e religioni qui stanno insieme solo grazie al comune nemico israeliano. Tutto ruota intorno al senso di appartenenza a questo o quel clan: imparare a fare autocritica vuol dire anche imparare a prendere le distanze da posizioni che non si condividono veramente”. Paura di fallire, di sbagliare? “Al di là di tutti i nostri sforzi, a cambiare le cose possono essere solo gli israeliani. Ma non sembrano intenzionati a farlo. Basti dire che qui preti e cooperanti vivono nell?illegalità: Israele non rilascia visti per la cooperazione, il 99% di noi è qui con visto turistico. Teoricamente, potremmo essere arrestati in qualunque momento”.

Info: Ponti o muri? 4 non profit creano legami

In Medio Oriente, le chiamano bridge-building initiative. Ovvero progetti, lanciati da organizzazioni non profit di cui fanno parte sia israeliani sia palestinesi, che lanciano ponti tra i giovani degli opposti ?schieramenti?. Ecco i più famosi:

Ipcri

L?Israel/Palestine Center for Research and Information è nato nel 1998 . Promuove una cultura della pace attraverso il Peace Education Program. Un progetto destinato ai ragazzi tra i 15 e i 16 anni e ai loro insegnanti, che prevede lo studio di un testo scolastico preparato da israeliani e palestinesi per riflettere su pace e tolleranza partendo dalle varie materie di insegnamento. Oltre alla riflessione su questo testo, l?Ipcri organizza incontri tra insegnanti dei due schieramenti e tra i ragazzi israeliani e palestinesi. Oggi il Peace Education Program è in atto in 32 scuole di Israele, di cui 12 palestinesi e 20 ebree, e in 27 scuole in Palestina.

Israel-Palestine Center for Research and Information The Peres Center for Peace

Fondato nel 1996 dal Premio Nobel Shimon Peres, promuove la tolleranza in Medio Oriente con vari programmi. Uno di questi, è il peace team. Una squadra di calcio con giocatori israeliani e palestinesi che, nel 2003, ha partecipato alle fasi iniziali di qualificazione della Coppa Uefa a Budapest.

Peres Center for Peace Panorama center

Il Palestinian Center for the Dissemination of Democracy & Community Development, fondato a Gerusalemme nel 1991 e che oggi conta uffici anche a Ramallah e Gaza, organizza corsi di lingua, di computer e sul pacifismo per i ragazzi palestinesi che vengono incoraggiati a fare volontariato e attivismo per i loro diritti.

Panorama Windows

Creata nel 1991 da ebrei e palestinesi, promuove la pace attraverso un giornale bilingue: l?Arabic-Hebrew Youth Magazine letto da circa 40mila ragazzi. A riempirlo sono una cinquantina di reporter israeliani e palestinesi tra i 10 e i 14 anni che seguono speciali corsi di giornalismo.

Windows


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA