Idee Giorni d'estate

Il senso del viaggio? L’ho imparato da mio padre che dormiva in una stalla della Falchera

L'intervento del sociologo torinese: solo quando mettiamo in gioco tutto noi stessi viaggiamo, altrimenti è solo il corpo che si muove mentre la testa resta altrove

di Fabrizio Floris

C’è gente che meriterebbe il Nobel mentre nessuno sa neanche che esiste; addirittura non si conosce la nazione in cui abitano e noi comparse ci ergiamo a protagonisti di una storia che la gente vive quotidianamente nella piena normalità della vita.

Mamajane viaggia quotidianamente sulla sua carrozzella per otto chilometri, dalla baraccopoli di Kawa al centro città, per andare a vendere venti chili di frutta. Chi conosce la Thika road di Nairobi sa che una carrozzella in mezzo ai matatu (autobus) che sfrecciano ai cento all’ora è un po’ come un pulcino in mezzo a dei rapaci. Mamajane è puntuale e ogni giorno mi dedica un sorriso. Ma non sono solo le labbra è tutto il suo corpo che mi comunica il suo benvenuto. Gli occhi, lo sguardo, le gote, le mani che si agitano.

Emmanuel ha intrapreso il viaggio dall’Africa all’Europa e poi, dopo trent’anni, dall’Europa all’Africa come se fosse vittima di un’attrazione biologica. Come terra che cerca acqua. Trent’anni come se un solo giorno fosse passato.

Adib è un rifugiato che ha attraversato il mare e il deserto per poi trovarsi solo a viaggiare per la città, in giro per mense, centri diurni e asili notturni. Alla ricerca di come ammazzare il tempo come nel campo profughi da cui è fuggito. 

Il viaggio verso la solitudine degli anziani e quello verso l’evasione ad oltranza dei giovani: della trasgressione che si fa più conformista delle regole. Viaggi troppo veri per essere verosimili.

La copertina del numero VITA magazine di luglio/agosto

Viaggiare è come tornare a casa dopo una lunga malattia e rendersi conto che alzarsi non è semplicemente il tempo dopo aver dormito, ma è venire nuovamente al mondo: sorgere. L’ambiente è lo stesso, ma siamo noi che lo rendiamo diverso. Così il viaggio non è costituito solo dal paesaggio, ma è qualcosa che si sovrappone al nostro sguardo. Solo quando mettiamo in gioco tutto noi stessi viaggiamo, altrimenti è solo il corpo che si muove mentre la testa resta altrove. Un viaggio pieno di pensieri e un pensiero pieno di viaggi.

La mia iniziazione al viaggio avvenne all’età di cinque anni quando da Cesana torinese andai da solo a San Sicario perché volevo vedere mio padre. Non so se conoscevo la strada o se l’ho trovata per caso. Tre chilometri a piedi con un solo pensiero per la mente: mio padre. Lui lavorava in un cantiere della nuova San Sicario, c’era arrivato dopo aver lasciato la disperazione della Sardegna degli anni ’60. Un giorno prese il traghetto e poi salì sul primo treno che andava verso nord, scese a Genova ma non gli piaceva, risalì e si fermò a Torino solo perché ormai era sera. L’indomani trovò subito lavoro in una piomberia, con un grosso mestolo versava il piombo fuso nelle formine, beveva tre litri di latte al giorno per disintossicarsi e poi si muoveva a piedi: venti chilometri per tornare a dormire in una stalla della Falchera. 

Su e giù per la città come se si rincorresse un destino. Un treno che non si può fermare, che procede in modo lento, ma inesorabile verso la meta, qualcosa che inconsciamente non si vuole ammettere: lasciare che la vita fluisca, senza opporsi, senza sapere esattamente dove vai, chi sei o cosa sarai.

Sono viaggi, frammenti di un unico viaggio: guardare fuori per scoprirsi dentro perché ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo. Ma il viaggio più lungo è l’altro, quello che sta nell’altra metà del letto in cui dormi (ai confini del corpo): un altro che è troppo vicino per essere attraversato (una frontiera quotidiana) e troppo prossimo per essere scoperto.

Come un reporter solo quando sono in viaggio mi sento a casa, solo quando vado verso una frontiera, verso un limite o una soglia da superare, quando sono dentro storie sconosciute di persone che lottano perché la vita sia viva: non sono ricordi niente mi appartiene, nessuna proprietà per la memoria: è mio finché sono in cammino.

Foto: quartiere Falchera di Torino

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