Welfare

Rwanda: A tu per tu con i detenuti di Nsinda

Visita al carcere più grande del Rwanda: Vita incontra i prigionieri coinvolti nel genocidio perpetrato dagli estremisti hutu nel 1994

di Joshua Massarenti

Rwamagana (Rwanda) ? Siamo a poco meno di 60 km ad ovest di Kigali, la capitale del Rwanda. Nella provincia di Kibungo, Rwamagana assomiglia a tante altre cittadine disseminate sul territorio rwandese: un modesto centro urbano spaccato a metà da una strada asfaltata sulla quale si affacciano uffici comunali, negozi dediti al piccolo commercio, ristoranti minuti e case fatiscenti. Qua e là, s?intravedono passanti ripararsi nei bar da una fitta pioggia che rende l?ambiente poco ospitale. Ma basta fare altri 3 km verso ovest per piombare in un universo ben più cupo. Sullo sfondo di una strada sterrata s?intravede una struttura imponente costruita in mattoni color terra battuta. Nell?avvicinarsi, dal nulla spunta un uomo con camicia e pantaloncini rosa fiammeggiante dirigersi a passi lenti verso i campi di granoturco adiacienti . Il colore dell?uniforme non lascia spazio ai dubbi: l?uomo è uno dei circa 85.000 detenuti presenti nelle carceri rwandesi per il loro coinvolgimento nel genocidio del 1994. Gli oltre 12.000 prigionieri di Nsinda fanno di questo carcere il più grande del Rwanda. ?Sono esattamente 12.284? tiene a precisare Jean-Bosco Sebukoko, il direttore del carcere. Dal suo taschino, tira fuori un foglio dal quale snocciola cifre e statistiche che solo dopo averci aperto le porte del carcere assumono tutta la loro drammatica dimensione. Dal piazzale centrale, ci si fa largo in una fiumana di uomini, donne e bambini incuriositi da una visita quantomeno improvvisa. Avvolti in una nebbia minacciosa, i tendoni giganteschi ospitano detenuti così numerosi da costringere molti di loro a dormire per terra o in piedi. Un corridoio strettissimo separa due file di letti di fortuna sovrapposti l?uno sull?altro in modo soffocante dal suolo al soffitto. ?Niente foto? ricorda quasi imbarazzato il direttore Sebukoko, ben cosciente che ?una cartolina dall?inferno? inviata al pubblico occidentale metterebbe a rischio l?immagine del sistema carcerario rwandese e i finanziamenti internazionali che a stento lo fanno sopravvivere. ?Queste sono le nostre condizioni di detenzione da oltre 8 anni? sottolineano in un francese quasi perfetto John-Bosco e Antoine. Come la stragrande maggioranza dei detenuti, sono originari del mondo rurale. Il loro è uno sterminio locale, nei comuni di Kabarondo e Kigalama. All?epoca dei fatti, erano poco più che ventenni e frequentavano ancora i banchi della scuola dove la Storia del Rwanda si riassume bene o male così: un?indipendenza nel?62 compiutasi con qualche screzio , ma nulla di più. Il resto è una “serie d’incomprensioni fra Tutsi e Hutu”. Ai primi massacri anti-Tutsi, preferiscono ricordare ?gli Hutu acompagnare alla frontiera i Tutsi dopo che questi ultimi hanno perso il potere?. Le due repubbliche razziste di Kayibanda e Habyarimana con relativi massacri e persecuzioni nel ?67, ?73 e primi anni ?90 lasciano il posto ad ?un?era di pace? dove l?ex presidente Habyarimana, morto nell?attentato del 6 aprile, ?era amato da tutti i rwandesi?. ?Avevamo molti amici tutsi? insistono come per meglio segnare il confine ?con l?anno del 1994 e tutti i cattivi messaggi propagandati dai nostri cattivi governanti?. Per John Bosco si parla addirittura ?di una storia d?amore con una Tutsi. So che è sopravissuta. Ma oggi non oserei affrontarla. Ha fatto la guerra con l?FPR (ribellione Tutsi oggi al potere). Non mi fido?. A sentirlo, la riconciliazione sembra lontana. Si fa quasi fatica a crederli sinceri quando riconoscono ?che il genocidio dei Tutsi è stato pianificato prima dell?attentato ad Habyarimana?. Già, perché bastano pochi minuti per sentir dire ?che se la scatola nera dell?aereo ritrovata nelle ultime settimane alle Nazioni Unite confermano che è stato l?FPR ad aver abbattuto, allora questo genocidio è colpa dei Tutsi?. In entrambe i casi, ?non abbiamo ucciso nessuno, ma siamo stati costretti ad accompagnare gli altri?. Altra contraddizione: avrebbero assistito ai massacri, ma dicono di appartenere alla categoria n°2 dei carnefici, ovvero coloro che hanno ucciso senza aver pianificato il genocidio. Di sicuro, sperano ?di poter essere liberati il più presto possibile? per ?tornare nei nostri comuni di origine e regolare i conti nei processi Gacaca?, sorta di giurisdizioni tradizionali messe in piedi dal regime per processare tutti i detenuti non appartenenti alla categoria n°1 (i pianificatori, i torturatori e gli autori di stupri). Dal gennaio 2003, in 2000 hanno lasciato il carcere di Nsinda. John Bosco e Antoine aspettano con ansia il loro turno, ?perché 8 anni sono davvero troppi per chi non ha commesso nessun crimine. Tutti i governanti? concludono con sentimenti inquietanti, ?quelli del passato e quelli odierni sono cattivi?. Per Antoine e John Bosco, le responsabilità individuali non sono all’ordine del giorno.


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