Economia sociale

A Torino, tra i palazzi dove germoglia l’impatto sociale

di Daria Capitani

Se Torino Social Impact fosse un viaggio, avrebbe una mappa di luoghi, ed edifici, che hanno fatto la storia della città. Da Palazzo Birago realizzato da Filippo Juvarra alla sala delle grida nell'ex Borsa Valori fino alla Cittadella Politecnica. Spazi che raccontano una Torino dall'incontenibile vocazione per l'impatto sociale

Una palla di neve, quando scende, cresce. Sempre di più, un frammento alla volta, rotolando velocemente. È la metafora più calzante, persino refrigerante in una città pronta a svuotarsi per il caldo d’agosto, per raccontare la parabola di Torino Social Impact. Un marchio collettivo che non ha governance ma ha visione, che dalla nascita si è ampliato in modo esponenziale: 12 enti all’esordio nel 2017, un centinaio nel 2022 (con la pandemia nel mezzo), 320 oggi. Una traiettoria che, in barba alla metafora, non ha alcuna intenzione di sciogliersi al sole. A guardarla dall’alto, è una mappa di luoghi che hanno fatto la storia di Torino.

Nel palazzo dove è sbocciata l’idea

Palazzo Birago a Torino [Foto Michele D’Ottavio]

I primi germogli di Torino Social Impact sono spuntati molto prima del brand che oggi è un modello in Europa. Li ha visti crescere Guido Bolatto, il segretario generale della Camera di Commercio. «È accaduto tutto qui», racconta. Siamo a Palazzo Birago di Borgaro, edificio prestigioso nel cuore della città, una delle prime realizzazioni torinesi dell’architetto Filippo Juvarra. Costruito a partire dal 1716, ammalia sin dal cortile d’onore, elegante e scenografico: dal 2000, dopo un imponente intervento di restauro, è la sede istituzionale della Camera di Commercio. «Nel 2004, al cambio del Consiglio della Camera, entrò un rappresentante di ConfCooperative», ricostruisce Bolatto. «Al momento della stesura del piano strategico, insisté molto per la creazione di un organo che si occupasse di economia sociale. La cooperazione aveva ben chiaro già allora che i due terreni, profit e non profit, avrebbero saputo trarre beneficio da una contaminazione». Nasce così, nel 2005, l’Osservatorio Economia civile. «Era una novità assoluta nel panorama italiano. Un organismo che puntava a essere il più inclusivo possibile, composto da una quindicina di membri. Per 10 anni ha svolto attività di ricerca per monitorare le nuove forme di imprenditorialità a impatto sociale».

Il segretario generale della Camera di Commercio di Torino Guido Bolatto.

Nel 2015, dopo altri rinnovi, cambia nuovamente il Consiglio e la Camera di Commercio si interroga su come far evolvere l’Osservatorio. Viene istituito il Comitato imprenditorialità sociale, un organo di indirizzo volto a conoscere in maniera organica la struttura e le dinamiche del Terzo settore. La sede è sempre la stessa, via Carlo Alberto 16. «Facciamo due scelte coraggiose e con il senno di poi lungimiranti», continua Bolatto. «Nominiamo un presidente esterno alla Camera, il professor Mario Calderini (torinese, è docente di Social Innovation alla School of Management del Politecnico di Milano, una figura di spicco nel mondo dell’economia sociale, nda) e asciughiamo il comitato, riducendo a sette il numero di membri. Torino Social Impact è frutto del desiderio di dare rappresentanza a un mondo variegato con cui ci stavamo interfacciando da anni».

Da 12 a 327 in sette anni

La forza di Torino Social Impact? «La sua flessibilità. Non è organizzazione, non è associazione, non ci sono quote associative né responsabilità, se non quella di partecipare e mettersi in gioco nella rete». Se lo chiedi a chiunque faccia parte della cabina di regia, la risposta è sempre la stessa. Non c’è governance. Lo conferma Mario Calderini, portavoce del marchio e anche il primo a immaginarne la costituzione: «Mi è sfuggito di mano», scherza. «È successo perché la rete di soggetti coinvolti è grande, si compone di persone preparate che hanno saputo declinarla in attività reali, e grazie a quella scelta iniziale. Torino Social Impact è un’aggregazione spontanea, una formula che qui ha funzionato, con adesioni importanti e rapidissime».

Il professor Mario Calderini, portavoce di Torino Social Impact.

Ricostruire i puntini sulla mappa non è semplice, la cronologia è recente ma densa di contenuti. Ci aiuta Simona De Giorgio del Comitato imprenditorialità sociale e coordinatrice di TSI, nella Sala Azzurra di Palazzo Birago, a pochi metri dalla nicchia in cui sono esposti gli antichi pesi con cui un tempo si svolgeva l’attività di controllo sugli strumenti di misura. «Nel 2016 il Comitato si fa proattivo. Su impulso di Calderini, si inizia a ragionare su una piattaforma territoriale che possa svolgere un ruolo generativo e trasformativo, con l’ambizione di mettere insieme pubblico e privato, profit e non profit in un modello multiattore che si rivelerà uno dei punti di forza. Nel 2017 l’intuizione prende forma e nasce Torino Social Impact: 12 soggetti tra cui compaiono, oltre alla Camera di Commercio e Fondazione Compagnia di San Paolo, pilastri sostenitori sin dall’origine, il Comune di Torino, le centrali cooperative, le università e altri incubatori d’innovazione sociale». Un soggetto variegato che ha ben chiara la sua mission: rafforzare l’ecosistema e renderlo pronto a interpretare al meglio un cambio di paradigma in cui si perseguano al contempo obiettivi di ritorno economico e di impatto sociale. «Fin dall’inizio, quest’ultimo è definito in maniera molto chiara», ricorda De Giorgio. «Intenzionalità, addizionalità e misurabilità. E in aggiunta il marketing del territorio: posizionare Torino come uno dei luoghi più dinamici per l’impresa sociale e gli investimenti a impatto».

Come si tengono insieme 327 partner? «Il primo comune denominatore è la sottoscrizione del Memorandum of Understanding, il protocollo in cui sono inseriti tutti i principi per promuovere l’ecosistema». E poi c’è il Comitato, che si riunisce con continuità, «il cantiere in cui si gettano le fondamenta per le progettualità».

Una tartaruga che corre

La velocità dei processi è una delle peculiarità di Torino Social Impact. La piattaforma è nata proprio per accelerare, rafforzare e promuovere i piani, le attività e gli eventi di tutti i soggetti locali che agiscono per trovare soluzioni a bisogni sociali. Per spiegarne in concreto le azioni, la senior advisor Raffaella Scalisi mostra un grafico a tartaruga: nella pancia le direzioni, al posto delle gambe i progetti.

C’è il procurement sociale, che oggi assume la forma del protocollo Buy Social, una chiamata ai partner affinché possano mettersi alla prova su acquisti sociali, capacity building, B2B collaborativo. Tech4Good guarda alla digitalizzazione del terzo settore e alla sperimentazione di nuove ed emergenti tecnologie. L’ultimo nato è l’approccio outcome fund associato al tema dei Neet (giovani inattivi, che non studiano e non lavorano): il progetto prevede il coinvolgimento di un investitore privato disponibile a mobilitare risorse a favore di politiche stabilite dal pubblico, i fondi vanno a un’impresa sociale che realizza in concreto l’azione e, a fronte del risultato, la spesa pubblica ripaga l’investitore. «In Italia sono ancora pochissime le sperimentazioni in questo senso, eppure il potenziale è altissimo».

Dentro la Cittadella Politecnica

Ci sono ancora due bandierine sulla mappa. La prima è nel cuore della Cittadella Politecnica del Design e della Mobilità Sostenibile, un luogo che è intriso di innovazione, costellato di fabbricati industriali riconvertiti in spazi di ricerca e studio. Proprio qui ha sede il Cottino Social Impact Campus, realtà nata nel 2019 da un impulso dell’imprenditore Giovanni Cottino e di sua moglie Annamaria, già fondatori nel 2002 della Fondazione Cottino.

Il Cottino Social Impact Campus, nel cuore della Cittadella Politecnica.

La scelta della Cittadella Politecnica non è un caso. «L’ingegner Cottino aveva studiato al Politecnico e riconosceva nella sua formazione l’innesto di una sensibilità che lo avrebbe guidato nella sua lunga carriera. Per questo ha voluto creare un campus qui, una sorta di restituzione a luogo», spiega Caterina Soldi, development & program manager. La struttura, interamente recuperata dalla Fondazione, è progettata con la logica del design thinking: s’intuisce subito entrando nelle aule pensate per la didattica, nei colori e nelle scritte alle pareti. «Favoriamo processi di formazione trasformativa».

Marella Caramazza, board member del Cottino Social Impact Campus e direzione strategica del CeVIS.

Che cosa c’entra con Torino Social Impact? Innanzitutto, è partner della piattaforma, ma soprattutto è l’ente a cui Camera di Commercio ha affidato il Centro di competenza per la valutazione e misurazione dell’impatto. Qui si svolgono corsi di formazione ad hoc o pillar tematici su richiesta di imprese ed enti del Terzo settore, dal 2020 anche il corso universitario di aggiornamento professionale in Valutazione d’Impatto sociale

Dal 2022, Istud, la prima Business School indipendente italiana, è entrata a far parte del Cottino Social Impact Campus. Un’unione strategica, lo dicono i numeri: «In due anni e mezzo abbiamo raggiunto circa 4mila persone tra formazione e divulgazione», spiega Marella Caramazza, board member del Cottino Social Impact Campus e direzione strategica del CeVIS. «Il campus ha una missione molto precisa: essere agente abilitatore della trasformazione culturale. Vogliamo essere una rete di competenze ma anche uno snodo da cui partono connessioni».

La sala delle contrattazioni

A un centinaio di metri in linea d’aria dalla Camera di Commercio, c’è un altro edificio che è un tuffo nella storia. È il Palazzo della Borsa Valori, costruito tra il 1951 e il 1956, testimonianza del rinnovamento architettonico del Secondo Dopoguerra. Qui, in un salone sovrastato da una cupola in cemento armato, fino al 1992 si svolgevano le contrattazioni (le grida, direbbero i torinesi), poi l’attività cessò per l’avvento della borsa telematica.

La sala delle contrattazioni in un’immagine storica.

Un’opera d’avanguardia per gli anni in cui fu costruita, che ora punta a confermare un certo gusto per le idee pionieristiche, perché si appresta a ospitare la Borsa dell’impatto sociale: «Un mercato finanziario dedicato alle imprese che realizzano un impatto sociale positivo e nel quale le transazioni siano basate sia sul valore finanziario sia sul valore dell’impatto sociale misurato», spiega Scalisi. «Ci siamo prima confrontati a livello internazionale con esperienze simili, rarissime, e poi abbiamo realizzato una vera e propria simulazione in borsa. Il dato più impressionante è che più di cento professionisti tra studi legali, consulenti ed esperti di finanza e misurazione si sono messi a disposizione gratuitamente».

La Borsa dell’impatto sociale, che come anticipa il segretario della Camera di Commercio troverà casa nell’ex Borsa Valori dopo un intervento di recupero oggi in fase di progettazione, sta vivendo una fase cruciale. «L’obiettivo non è adeguare le imprese a impatto sociale alle regole delle imprese in borsa. Noi vogliamo molto di più: far sì che nasca un luogo con le stesse regole del mercato finanziario ma che tenga conto dell’impatto sociale che le imprese portano alla comunità. Stiamo lavorando affinché quel luogo esista davvero». Intanto, la sede c’è già e ha un indubbio valore simbolico. «Non ospiterà soltanto la Borsa a impatto sociale», precisa Bolatto, «ma tutte le attività connesse al tema: ci saranno uffici, open space e una grande sala multifunzionale, uno spazio per tutta la città».

Torino perché

Lo abbiamo chiesto a tutti gli interlocutori di questo lungo percorso. L’itinerario che stiamo raccontando sarebbe stato lo stesso in un’altra città? La risposta è unanime ed è un no. Per Bolatto, «oltre alla tradizione dei santi sociali che ha fondamenta solide, va detto che Torino ha un numero eccezionale di fondazioni filantropiche e di imprenditori illuminati e il volontariato ha un peso specifico non indifferente».

Lo conferma Calderini. «Torino laboratorio è più di un concept: la città ha ancora un sostrato tecnologico importante. Ci sono la tradizione dell’imprenditorialità sociale religiosa e quella laica del movimento operaio. E c’è una somma di Fondazioni bancarie che spicca. Nessuna di queste tre cose spiega da sola la vocazione di Torino per l’economia sociale ma l’intersezione delle tre fa la differenza». Calderini ci pensa, poi ne aggiunge una quarta: «Le persone».

Lo staff operativo del Torino Social Impact: da sinistra, Raffaella Scalisi, Grace De Girolamo, Irene Maddio-Rocco, Simona De Giorgio e Lorena De Maria.

La senior advisor Scalisi chiama in causa Grace De Girolamo, responsabile Comunicazione e Relazioni esterne: «Il fatto che la comunicazione abbia sempre viaggiato di pari passo con la progettualità è stato elemento eccezionale e valore aggiunto. Ho visto nascere dalla comunicazione iniziative che mai avrei immaginato». Non solo: «L’abitudine della città alla progettazione partecipata ha reso fertile il terreno d’azione».

Infine, Caramazza individua nella città della Mole «l’abitudine e la disponibilità a ragionare nel lungo periodo. È un ecosistema che non si aspetta risultati a brevissimo termine. Torino è una città che sa stare nell’incertezza e ha fiducia nel fatto che qualcosa accadrà. Credo che questo sia un tratto culturale che fa la differenza, così come la consuetudine all’appartenenza. Qui esistono relazioni di famiglia, legami invisibili che tengono insieme la comunità».

C’è un’Itaca per ogni viaggio. Quella di Torino Social Impact è emersa sin alla prima riunione. «Immaginate un chiosco in periferia, di quelli dove si mangia l’anguria d’estate», aveva detto Calderini. «Avremo raggiunto il nostro obiettivo soltanto quando in uno qualunque di quei tavolini sapranno tutti che cos’è Torino Social Impact».

La foto in apertura è di Fabio Fistarol su Unsplash. Le immagini all’interno del longform sono state fornite dalla Camera di Commercio di Torino, dal Cottino Social Impact Campus e da Torino Social Impact.


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