Famiglia

Altman, balletto contro la vacuità

Recensione del film "The company" di Robert Altman (di Maurizio Regosa).

di Redazione

Se ricordate, Jacques Lacan nel suo seminario su La lettera rubata spiega, fra l?altro, come mai le cose si fanno invisibili proprio quando sono sotto gli occhi di tutti. Sono lì, eppure nessuno è in grado di individuarle. Mi sembra sia un po? quello che accade con questo ?eccentrico? film, che la critica italiana sta dimostrando di non amare (ma se Robert Altman fosse sempre prevedibile, che maestro sarebbe?), e che senza dubbio può spiazzare lo spettatore, appunto perché il suo senso è, alla lettera, sotto gli occhi di tutti e tuttavia non è immediatamente evidente. Quale allora mi pare sia il senso di The company? In questi mesi insanguinati dalla guerra e dal terrorismo, l?autore di Mash si concentra su una piccola ?non storia? che riguarda una compagnia di ballo. Cioè crea un?opera fuori contesto e per questo, forse, paradigmatica, che ci parla della fatica, del lavoro, dell?abnegazione, della costanza, della scelta. Per appartenere al Joffrey Ballet di Chicago, servono virtù – potremmo dire -dimenticate da questo mondo occidentale in cui la rapidità del risultato, l?ottimismo del successo suggeriscono agli ingenui che sia lecito, oltre che possibile, sperare in un buon esito senza l?opportuna preparazione, senza l?adeguato impegno. Seguendo alcuni dei procedimenti stilistici che l?hanno reso unico (la moltiplicazione dei personaggi, il ricorso a nessi narrativi deboli, se non debolissimi, l?apparentemente semplice rapidità delle riprese e l?originalità dei raccordi di montaggio), Altman ci racconta l?esistenza quotidiana dei ballerini, indugia sulle prove, su alcuni momenti di gloria (non troppi) e su altrettanti di ?ignavia? (una di loro, interpretata da Neve Campbell, lavora di sera in un pub per arrotondare). Il regista insomma punta la sua macchina da presa su un ambiente che l?immaginario collettivo tende a colorire di romanticismo, leggerezza e forse vanità, mostrandone al contrario i muscoli, il sudore, la determinazione e ricordandoci che quel che pare bello (come il magnifico balletto con cui il film si apre) è frutto di dolore e caparbietà. Implicitamente il film pone un interrogativo: se il mondo ritenuto della superficie, dello scintillìo, dell?effimero, si rivela profondo, ricco di progettualità e di senso, cosa dire dell?altro, di quel mondo delle cose cosiddette serie e importanti, che crede nell?efficacia dei lifting, che abusa dell?immagine continuando, in malafede, a sostenerne la vacuità?

Maurizio Regosa


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