Medio Oriente

Il Libano tra povertà, rifugiati e paura dell’escalation 

Nel Sud del Paese sono quasi 100mila gli sfollati interni dopo il sette ottobre. I bombardamenti di Israele diretti stanno distruggendo case e infrastrutture pubbliche. «Dopo l'attacco a Beirut l’aria è tesa e carica di ansia, la situazione può degenerare da un momento all'altro», racconta Valentina Corona, rappresentante Paese dell’ong Intersos, adesso si trova nella capitale. «E nel Sud, con un fronte di conflitto attivo, è complicato garantire assistenza alla popolazione con regolarità»

di Anna Spena

Dallo scorso sette ottobre, nel raggio di 10 km dal confine meridionale libanese con Israele, sono iniziati scambi di fuoco quotidiani tra le forze israeliane e Hezbollah: i distretti più colpiti sono quello di Bint Jbeil, Marjayoun, Hasbaya e Tyre. Il confine tra il Nord di Israele e il Sud del Libano, roccaforte di Hezbollah (organizzazione paramilitare islamista sciita e antisionista libanese), è un lembo di terra caldissimo, da anni è presidiato dalla Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite – Unifil. Da gennaio 2024, i bombardamenti si sono estesi ulteriormente, coinvolgendo i distretti di Nabatieh e Jezzine. Attualmente i bombardamenti più intensi rimangono concentrati nelle aree entro 10 km dalla Linea Blu. 

Ad oggi sono quasi 100mila gli sfollati, 72 scuole pubbliche e private hanno dovuto chiudere, del tutto o in parte, compromettendo l’accesso all’istruzione per 20mila bambini. «L’accesso ai servizi essenziali è stato ostacolato anche da diversi fattori legati alla situazione socio-economica e legale delle famiglie sfollate. Il 71% ha dichiarato di aver perso il lavoro e i mezzi di sostentamento, il 50% non ha avuto informazioni sui servizi disponibili nelle aree in cui si è trasferito e il 3% ha dichiarato di aver perso l’accesso ai propri documenti legali», spiega l’ong umanitaria Intersos da anni presente in tutto il Paese con uno staff di 300 persone. «Inoltre», continua l’ong, «non avendo fonti di reddito alternative, molti hanno scelto di rimanere in aree a rischio – ad oggi parliamo di 142mila persone – o di spostarsi tra aree sicure e non sicure, per continuare a svolgere lavori stagionali, come la raccolta delle olive. Per garantire la sicurezza delle proprie famiglie senza perdere i propri mezzi di sostentamento, diversi mariti hanno scelto di rimanere nelle aree di confine, mentre le mogli e i figli si sono trasferiti altrove, separando di fatto il capofamiglia dal resto del nucleo familiare».

Il Libano da diversi anni sta vivendo una crisi economica e sociale senza precedenti. Nel Paese vivono circa 490mila rifugiati palestinesi, e secondo le stime del Governo il Libano ospita anche 1,5 milioni di rifugiati siriani, solo 815mila sono stati registrati dall’Unhcr. Per capire fino in fondo il peso di questo dato bisogna guardare ad un altro dato, quello dei cittadini libanesi, che ormai non raggiunge i cinque milioni di abitanti, ma anche in questo caso ci muoviamo nel campo delle stime: l’ultimo censimento della popolazione libanese risale al 1932. La maggior parte dei siriani in Libano non è riconosciuto dal Governo, che non ha mai firmato la convenzione di Ginevra sui profughi, dunque non riconosce lo status di rifugiato, per questo non ci sono campi profughi strutturati. 


Dopo l’attacco dell’esercito israeliano in una periferia sud della città di Beirut la situazione sta precipitando. Nel luogo dell’attacco si troverebbe un ufficio di coordinamento di Hezbollah e delle Guardie rivoluzionarie iraniane. Il ministero della Sanità libanese ha comunicato che i morti civili sono almeno 3: una donna e 2 bambini. I feriti sono 74. Il bombardamento ha colpito un palazzo di otto piani, tre dei quali sono crollati. 

«L’aria è tesa e carica di ansia», racconta Valentina Corona, rappresentante Paese dell’ong Intersos, adesso di trova a Beirut. «Molti dei nostri cooperanti vivono nelle vicinanze del quartiere dove c’è stato l’attacco. Solo l’1% del nostro staff è composto da espatriati. Quindi i nostri operatori sono coinvolti in prima persona nel momento difficile che sta vivendo il Libano. Gli operatori che vivevano e lavoravano al Sud, vicino al confine, si sono visti costretti a lasciare la loro casa: il Sud è una zona di conflitto attivo. In media ogni giorno ci sono dai 20 ai 30 scambi di fuoco tra Israele e Hezbollah». 

Il movimento sciita percepisce «l’attacco su Beirut», continua Corona, «come una vera aggressione. E a sua volta si dichiara non responsabile per l’attacco  sulle alture del Golan dove sono stati uccisi 12 minori. La vita sembra scorrere normale, ma non è normale per davvero. In città e nel Paese sono e siamo tutti in attesa, non sappiamo quando reagirà Hezbollah a questo attacco, sappiamo solo che la risposta sarà “forte”».

Anche i progetti di cooperazione risentono di questo stato di insicurezza generalizzato. «I programmi a Nord e nel Centro del Paese«, spiega Corona, «continuano. A Sud, invece, abbiamo dovuto riadattare tutte le risposte. É una zona off limits anche per le ong. Lì ora organizziamo missioni mirate – in coordinamento con l’Ocha. Forniamo supporto economico e facciamo distribuzioni di kit igienici. Nel Sud del Paese è decisamente complicato, con questo scenario, garantire assistenza alla popolazione con regolarità».

Credit foto: AP/Hussein Malla. Un attacco aereo israeliano ha colpito la roccaforte di Hezbollah a Sud di Beirut nella serata di martedì 30 luglio.

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