Mondo

Il mea culpa del generale

E' uscito lo scorso ottobre il libro di Romeo Dallaire.

di Daniele Scaglione

“Ma dopo tutto quello che ha visto in Ruanda, come può ancora credere in Dio?”. Alla domanda, postagli da un cappellano militare, il generale Romeo Dallaire rispose senza esitazioni. “Io so che esiste Dio perché in Ruanda ho stretto le mani al diavolo. L?ho visto, ne ho sentito l?odore, l?ho toccato, io so che il diavolo esiste, e perciò deve esserci un Dio”.
Dallaire racconta questo colloquio nelle prime pagine del suo libro uscito nell?ottobre scorso, un?opera che nell?edizione francese supera le 600 pagine. Stringendo le mani al diavolo. Il fallimento dell?umanità in Rwanda, (edizioni Libre Expression, 2004, 23,75 euro su www.amazon.fr) è una sorta di diario dei suoi giorni nel Paese delle mille colline tra il novembre del 1993 e l?agosto del 1994, quando ha guidato quella che avrebbe dovuto essere una missione di pace e che invece si è trasformata nel peggiore fallimento della storia dell?Onu.
Per completare il suo racconto, Dallaire ha impiegato quasi dieci anni. Un tempo necessario per ordinare i fatti, ma anche per combattere contro quella malattia, la Sindrome da stress post traumatico, che l?ha colpito al suo rientro in Canada. Il generale ricorda la frustrazione dell?assistere a un massacro che avrebbe potuto evitare, se i suoi capi presso le Nazioni Unite gli avessero prestato ascolto e fiducia. Racconta i suoi incontri ?con il diavolo?, che forse si è incarnato in quei leader delle milizie che lo accoglievano ai colloqui con le magliette sporche di sangue, o forse ha preso le sembianze del colonnello Bagosora, l?uomo forte del Paese che, durante i massacri, appariva completamente calmo come poteva essere un pazzo o, in alternativa, chi vedeva tutto svolgersi secondo i propri piani.
Per le sue condizioni di salute, Romeo Dallaire nell?aprile del 2000 è stato esonerato dall?esercito, a soli 54 anni. Gli dissero che doveva lasciarsi il Ruanda alle spalle, ma questo al generale risultò impossibile. La stesura del libro forse potrà averlo aiutato, in una sorta di effetto catartico, a sentirsi più sollevato, ma c?è da dubitarne.
Presentando il suo libro in Francia e in Belgio, Dallaire ha risollevato il problema del ruolo di Parigi, ha denunciato il comportamento indisciplinato di alcuni caschi blu belgi, mentre ha difeso con decisione l?operato del suo vice in Ruanda, il colonnello belga Marchal, finito poi sotto corte marziale. Ha riaperto ferite, ricordato momenti terribili. Se Dallaire non riesce a sentirsi meglio, forse qualche rimorso sta finalmente assalendo coloro che potevano ma non hanno voluto far nulla per fermare il genocidio.
A manifestare qualche segnale di autocritica per ora è Kofi Annan, a suo tempo capo di Dallaire, che nelle ultime settimane ha ribadito un paio di volte la propria responsabilità. Sarebbe opportuno che il mea culpa, non rituale ma sostanziale, si estendesse a quei responsabili di governo – francese, statunitense, belga e italiano, innanzitutto – che allora, pur sapendo cosa accadeva, si limitarono a mettere in salvo i propri connazionali, per poi abbandonare il popolo ruandese.

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