Cinema

Loach: la massimizzazione del profitto per gli azionisti è il male del nostro tempo

Il conferimento a Ken Loach del Premio Horcynus Orca, nell’ambito dell’omonimo Festival promosso da Fondazione Messina, ha assunto un doppio significato. Riconoscere il merito di un regista il cui cinema ha raccontato in maniera anche poetica le storie e i problemi della classe operaia, ma anche sancire un legame con una realtà come quella fondata da Gaetano Giunta che si assume la responsabilità di costruire percorsi di riscatto dal disagio per le persone più fragili. Una visione condivisa che lo stesso regista ha sottolineato in diretta streaming durante la serata del ricco programma dell’edizione di quest’anno dell’ Horcynus Festival

di Gilda Sciortino

Il suo cinema ci ha raccontato delle lotte della classe operaia e della rabbia verso la struttura della società borghese e capitalistica che opprime chiunque si trovi nella condizione di essere sfruttato. I personaggi che animano i film di Ken Loach sono carichi di determinazione e spinta verso il riscatto che li rende individui attenti e responsabili verso gli altri, in controtendenza rispetto a un mondo che diventa ogni giorno più indifferente.

Decidere di premiarlo all’Horcynus Festival, in corso a Messina, è stato sostanzialmente condividere visioni che, anche attraverso la magia del cinema, vogliono e possono determinare il cambiamento, la trasformazione. Processi che puntano a favorire il riscatto dalla condizione di marginalità delle persone che abitano i territori in cui opera Fondazione Messina, a dire il vero molto simili a quelli in cui si sviluppano le storie di uno dei più grandi registi e sceneggiatori del nostro secolo.

In collegamento streaming dalla Scozia perché impossibilitato a muoversi, Ken Loach ha parlato del suo cinema, anticipando anche il suo ultimo film: ultimo non solo in ordine di tempo, ma anche come produzione, avendo deciso di riporre definitivamente la moviola nel cassetto.

“The Old Oak”, questo il titolo del suo ultimo lavoro,  prende il nome da un pub, l’unico locale aperto in un ex cittadina mineraria nel Nord Est dell’Inghilterra, anche l’unico posto pubblico in cui ritrovarsi e connettersi con gli altri. Qualcosa rischia, però, di cambiare e di sgretolarsi, quando nel quartiere vengono accolti alcuni rifugiati siriani. TJ Ballantyne, sua anima e gestore, rischia di perdere gli assidui frequentatori e comprende, non solo per sua necessità, che ha il dovere di fare in modo che le due comunità debbano conoscersi, confrontarsi e imparare a convivere.

La cerimonia di consegna del premio a Ken Loach

«Un lavoro» ha affermato Franco Iannuzzi, direttore artistico dell’Horcynus Festival «che indica la strada per raggiungere la pacificazione in una comunità che Loach analizza e mette a fuoco, di persone che si sono fatte prendere dall’odio».

Tante le domande che hanno animato un dibattito sul senso di un cinema, quello che lo ha fatto conoscere e amare in tutto il mondo per il suo modo di raccontare la realtà senza veli, in maniera diretta, quasi sempre crudele come del resto la realtà a cui appartengono i suoi personaggi. Un cinema che non dà risposte, ma provoca domande, tante domande, creando inquietudine ed empatizzando la sofferenza di chi è ai margini della società, gli esclusi, gli estranei, quelli per i quali la speranza è solo un concetto da non potersi permettere. Quasi un presagio quando dieci anni fa, durante la consegna dell’Orso d’Oro alla Carriera, lo stesso Loach ha affermato “Il mondo diventa più scuro”.

Il mondo di cui oggi racconta, invece, nutre più speranza?

C’è sempre la speranza, ma per avere una chance realistica dobbiamo combattere contro povertà, disoccupazione, guerra, repressione, cambio di clima, contro tutte quelle forze che limitano l’essere umano. C’è in questo un elemento comune, che è il capitalismo, basato sul profitto che deve essere generato ogni anno per gli azionisti. La richiesta costante di massimizzazione di ogni profitto, però, porta tutte le conseguenze prima descritte.

Il capitalismo deve fare tre cose per potere continuare a esistere e perpetrarsi: la prima è essere in costante conflitto con la classe operaia perché solo così può ottenere la riduzione del costo di lavoro e, quindi, maggiori margini e maggiori guadagni; la seconda cosa è quella di espandersi, continuando a ricercare nuovi mercati, nuove opportunità per i propri prodotti e servizi. Questo, però, si trasforma anche in un’aggressività verso le economie degli altri Paesi, il che produce guerre che, a loro volta, causano migrazioni. Il terzo elemento, il terzo fattore che il capitalismo deve mettere in pratica è continuare a consumare le risorse della Terra perché, se non lo farà una particolare impresa, saranno altre che prenderanno il suo posto per aumentare i propri profitti. Tutti gli attori del capitalismo si ritrovano impegnati in questo costante e spasmodico consumo di risorse del nostro Pianeta.

Questi tre elementi, combinati insieme, caratterizzano l’essenza del capitalismo, che comporta tutti i mali che abbiamo prima elencato – povertà, disuguaglianza, mancanza di lavoro, emigrazione, cambio climatico – che sono quelli, come mi sembra di avere capito, contro cui combatte la stessa Fondazione Messina. individuandoli come mali moderni.

La proiezione di “The Old Oak”, l’ultimo film di Ken Loach

Da cosa dobbiamo stare attenti e quale soluzione che ci può venire in aiuto?

Parto dal dire che, per quello a cui assistiamo, anche il capitalismo è una vecchia teoria che sta vedendo il suo fallimento, la sua fine. Questo causa una confusione, anche una disperazione, in politica da cui emerge un movimento di estrema destra che prova a difendere il capitalismo, pur parlando il linguaggio della classe operaia. Su questo dobbiamo stare molto attenti perché, appunto, il tentativo è di convincerla, pur difendendo il capitalismo storico.

Dico questo perché quello che ci può senza ombra di dubbio aiutare è la solidarietà tra le persone a livello internazionale. Una solidarietà che deve coinvolgere le classi operaie dei diversi Paesi e che si deve consolidare, per esempio, verso i migranti; persone che hanno gli stessi interessi, condividono gli stessi valori con quelle di tutti Paesi occidentali e contro cui combatte l’estrema destra.

Quale ruolo ha il cinema in tutto questo. Può un film favorire il cambiamento?

Certamente, un film può avere un ruolo importante, può lasciare allo spettatore delle domande a cui rispondere, può fare provare emozioni, rabbia, solidarietà, può fare per vedere il mondo in un’ottica diversa. Poi, però, tutto dipende da cosa fa lo spettatore quando esce dal cinema e come quello che viene presentato nel film si connette con la politica. C’era uno slogan movimentista americano che diceva “Agita la coscienza, educa e organizza”, praticamente gli step fondamentali per raggiungere la rivoluzione. Un film può agitare le coscienze, può in parte educare, ma sicuramente non può organizzare. In tal senso deve avvenire la connessione con i movimenti politici più ampi. Quindi, si, il cinema può avere un ruolo, ma non da solo.

Un cinema, il suo, amato proprio perché ogni finzione è bandita…

Quando faccio un film c’è una storia da raccontare che racchiude una verità che vogliamo comunicare, trasmettere alla società, agli spettatori. Come riuscire a fare capire agli spettatori che dietro c’è una verità? Per far questo è importante coinvolgere anche persone che sono colpite da quello che vivono direttamente sulla loro pelle. Nell’ultimo film che ho girato c’è una storia che parla della Siria e gli attori venivano da quel Paese, facevano nella vita reale il lavoro che si racconta nel film. È estremamente importante perché, così, gli spettatori riescono a riconoscere la sincerità che esprimono gli attori.

L’ulteriore elemento è dato dal fatto che riescono a comunicare emozioni perché le sentono davvero, è del resto la loro vita che portano in scena. Importante, per me, combinare sia persone che di professione fanno gli attori con altre che magari si sono avvicinate al cinema tardi nella loro vita, ma mantengono quel background che permette di creare la connessione umana fondamentale per i miei film. È sicuramente un lungo processo, quello di selezionare e individuare le persone adatte, ma ha sempre portato i suoi frutti.

Due gli ulteriori elementi che mi guidano. Uno, che non puoi fingere di essere di un’altra classe sociale. Se il personaggio appartiene alla classe operaia, l’attore deve venire da lì, perché quel che impari nella vita sin da bambino si riconosce subito. Questo vale anche per chi viene dalla borghesia. La seconda cosa è che non si può nemmeno fingere un’altra lingua, un altro accento; le parole che si pronunciano sono intrinseche alla persona e raccontano la sua provenienza, la sua storia. Ci tengo, infine, a dire che i miei film non sono mai solo miei, ma anche delle persone con cui collaboro. In particolare mi piace citare Paul Laverty, scrittore con cui ho collaborato di più negli anni e con il quale mi sento di condividere tutti i risultati ottenuti.

vita a sud

Un percorso, quello narrativo di Loach, molto affine, lo dicevamo e lo registrava anche lui, a quello di Fondazione Messina, il cui fondatore, Gaetano Giunta, è tra coloro i quali ha sostenuto il premio al regista proprio in virtù di uno di quegli incontri fondati e alimentati da visioni non sempre facili da spiegare a chi non è sulla stessa frequenza.

«Grazie intanto per la tua presenza» ha detto Giunta, rivolgendosi direttamente al regista a conclusione del collegamento. «La sensibilità e l’analisi che tu fai, così come il tuo impegno politico, ci rende davvero affini, ci rende fratelli di comunità. Il cinema, hai detto bene, ha la capacità di narrare, forse anche di anticipare visioni, desideri e bisogni dei popoli. Il cinema come il tuo è un grande cinema se è maieutico, capace di suscitare domande. Insieme, quindi, dobbiamo cercare strade nuove sui cui muoverci. In questi anni di impegno, la Fondazione ha consentito il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, così come l’eliminazione di due delle più grandi baraccopoli della città di Messina portando 650 persone a vivere in una casa di proprietà, una grande operazione di redistribuzione della ricchezza. Ha promosso centinaia di nuove imprese solidali tra cui molti workers buyout cioè imprese generate dagli stessi lavoratori; ha anche rigenerato molte aree, numerosi pezzi di territori occupati spesso dal degrado e dalla criminalità organizzata. È questo l’impegno a cui siamo tutti chiamati e ti ringraziamo davvero moltissimo per essere stato oggi con noi».

Le foto relative alla serata durante la quale è stato conferito il premio a Loach sono state fornite dall’ufficio stampa di Fondazione Messina

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