Antonio ha gli occhi lucidi. Sorseggia un bicchiere d’acqua fresca in un angolo del giardino dell’immobile confiscato alla criminalità organizzata, nel territorio di San Teodoro (Olbia), e osserva con discrezione la sobria cerimonia di inaugurazione, alla presenza dei rappresentanti istituzionali e soprattutto di tanti ragazzi e genitori dell’Associazione bambini cerebrolesi. L’Abc Sardegna si è aggiudicata il bene, un tempo di proprietà di un clan malavitoso del Lazio. L’associazione, fondata da Marco Espa (oggi presidente di Abc Italia) e guidata da alcuni anni da Luisanna Loddo, si è piazzata al sesto posto nel bando dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Un ottimo risultato, se si considera che vi hanno preso parte anche imprese sociali di grandi dimensioni, con fatturati plurimilionari.
Antonio Catte (nella foto d’apertura con suo figlio) è uno dei genitori della prima ora che hanno aderito all’Abc Sardegna. Lui e sua moglie Maria Agostina hanno due figli, Maria di 50 anni e Giuseppe di 45. Vivono a Sennori, un paese a otto chilometri da Sassari. «Sono il papà di due figli che non ho vergogna nel definirli speciali, fuori da ogni retorica», si presenta.
Ci racconti il vostro vissuto.
Non c’è molto da dire, siamo una famiglia come tantissime altre. Abbiamo vissuto di lavoro e sacrifici. Ma non cambierei per niente al mondo ciò che abbiamo. La nostra vita è questa, anche con le fatiche che abbiamo dovuto affrontare per far crescere serenamente i nostri ragazzi. Quando loro non sono a casa, io e mia moglie ci sentiamo soli. Ci guardiamo negli occhi, lo sguardo perso nel vuoto perché ci mancano Maria e Giuseppe.
Con loro attorno è tutta un’altra cosa, anche se non sono più bambini.
Esattamente. So che può sembrare assurdo, vista la loro età, ma è così.
Quando vi siete accorti che avevano problemi di salute?
Maria è nata apparentemente sana. Durante la gravidanza non c’era stato alcun segnale sospetto. E neppure durante e dopo il parto. Ma quando ha raggiunto i tre mesi, la bambina non riusciva a stare col busto eretto. A undici mesi ha avuto le sue prime convulsioni: i medici le attribuirono a uno stato febbrile.
E quale fu la diagnosi?
Non furono in grado di diagnosticarle la patologia. E pure oggi non sanno che pesci pigliare: non sappiamo che cos’hanno esattamente né lei, né lui. Sta di fatto che abbiamo dovuto combattere con le convulsioni per circa sette anni: duravano due, anche tre ore, e ci costringevano a portarla d’urgenza all’ospedale, dove poi Maria veniva ricoverata in osservazione. Spesso vi giungeva in coma, non sapevamo mai se ne sarebbe uscita viva. Insomma, ne abbiamo passato davvero di tutti i colori.
Siete stati coraggiosi a cercare una seconda gravidanza.
In verità, ci consultammo con l’equipe di Neuropsichiatra dell’ospedale San Camillo di Sassari, e i medici ci dissero che l’esame della mappa cromosomica non aveva rilevato pericoli. Ci recammo anche altri ospedali, come il Brotzu di Cagliari e il Gaslini di Genova: ebbene, tutti ci dissero che potevamo stare tranquilli perché sarebbe nato un bimbo sano, che ci avrebbe aiutati a gestire al meglio la piccola Maria. E noi, pur di assicurarle un fratellino con cui giocare, ci abbiamo riprovato. Noi, a quella creatura, potevamo dare soltanto amore, attenzione, premure.
Così è nato Giuseppe, che ha le stesse caratteristiche della sorella.
Esattamente. L’unica cosa che li contraddistingue è il carattere, in quello sono molto differenti. Ma le problematiche sono state identiche. Solo che l’esperienza ci ha aiutati molto e Giuseppe ne ha tratto maggiori benefici: abbiamo potuto giocare d’anticipo su tanti aspetti. Infatti, lui è più reattivo e dinamico. Con la primogenita eravamo molto giovani e impreparati.
Anche per lui i problemi sono iniziati ai tre mesi di vita?
Sì, sembrava la fotocopia della vicenda vissuta anni prima con Maria. In tutto e per tutto. A un certo punto, io e mia moglie ci siamo guardati negli occhi e ci siamo detti: che si fa? Passiamo le giornate a piangere oppure ci rimbocchiamo le maniche? Abbiamo scelto la seconda opzione. E viviamo tutti i momenti con grande gioia e ottimismo, come si conviene a una vera famiglia. Forse pure meglio di tante altre: da noi non ci sono litigi, invidie, gelosie.
Alcuni decenni fa era più difficile gestire situazioni del genere.
Non c’è alcun dubbio. I nostri figli sono stati molto emarginati, sia a scuola che in altri contesti sociali. Anche da parte di alcuni che consideravamo amici. Oggi molte cose vanno meglio ma avverto comunque tanta ipocrisia e diffidenza. Spesso c’è la facciata fatta di apparenza, in realtà è un fastidioso buonismo che cela la sopportazione per quieto vivere. All’80 per cento è solo finzione. A scuola molto è cambiato, in altri ambiti c’è ancora troppa ignoranza e un approccio non corretto.
Avete chiesto un consulto medico in altre parti d’Italia?
Sì, siamo persino andati a Filadelfia (Usa) per parlare con il professor Glenn Doman, un luminare che ha sviluppato una propria teoria sulla cura dei bambini con lesioni cerebrali, pubblicata nel 1960. Non avevo molti soldi, così chiesi la cessione del quinto per affrontare il viaggio e pagare la consulenza. Ci disse che Maria era intelligente, aveva tutto il potenziale dentro di sé ma andava aiutata a tirarlo fuori. Bisognava ravvivare i neuroni che in parte erano rimasti inattivi. Come? Attraverso il movimento, l’attività fisica. Insomma, lo sport. Doveva tornare alle origini, strisciare per terra come fanno i neonati, gattonare, andare carponi.
Insomma, doveva “rinascere” a nuova vita.
Proprio così. I risultati si sono visti progressivamente, ci sono voluti quattro lunghissimi anni. Ma con Giuseppe sono arrivati molto prima perché sapevamo già che cosa fare. Ha iniziato precocemente, rispetto alla sorella. E si vede.
Mentre Maria progrediva, è accaduto qualcos’altro di bello.
Sì, è nata l’Associazione Bambini Cerebrolesi. E noi vi abbiamo aderito subito. Era anche un modo di prendere possesso delle nostre vite. In quegli anni ci eravamo chiusi in casa, tenevamo a debita distanza i curiosi e coloro che si sentivano autorizzati a dispensare consigli non richiesti. Quando Maria aveva 12 anni e ha cominciato a camminare senza aiuto, all’Abc Sardegna abbiamo trovato interlocutori seri, preparati e disponibili. Una famiglia allargata con la quale confrontarci.
E Giuseppe?
Lui ha iniziato tutto con un certo anticipo, come dicevo. Ha iniziato da subito a fare sport, e questa attività ha ossigenato meglio il suo cervello. Ha ottenuto anche discreti risultati in ambito agonistico: con gli Special Olimpics, è l’unico sardo che ha fatto i 1.500 metri di nuoto in acque libere. Lui, come Maria, ha partecipato al progetto Filippide: hanno fatto gare di corsa anche nella penisola e all’estero. Insomma, si sono levati qualche soddisfazione. Lo sport fa bene a tutti, a loro persino di più.
Giuseppe dice la sua: «Mi piace fare sport, tra l’altro mi permette di uscire di casa. Fa bene a me, ma anche ai miei genitori, che così possono avere qualche ora di libertà. La mia educatrice Anna Maria (pagata attraverso i fondi della legge 162 e la “Dopo di noi”, ndr) mi accompagna per fare esperienze di diverso tipo, per esempio i laboratori, e anche per tre o quattro giorni in una casa al mare dei miei genitori: lì è possibile, una volta al mese, imparare a cucinare, a coltivare l’orto, a fare lavori di falegnameria. Imparo tante cose e spero che mi tornino utili nel momento in cui arriverò alla mia indipendenza. Sono sicuro che ci riuscirò. Ci voglio riuscire».
Signor Antonio, la determinazione di suo figlio è davvero contagiosa.
È bello vedere che ha un obiettivo da raggiungere. Sta imparando a usare il computer e altri lavori all’Ogena, l’Opera Gesù Nazzareno, un istituto che ha sede a Sassari ed è dedicato a ragazzi con differenti disabilità. Molti di loro risiedono lì, arrivano da tutta la Sardegna.
Questo, e molto di più, lo ha raccontato in un libro.
Sì, l’ho intitolato “Cara mamma e cara moglie”. L’abbiamo voluto dedicare a mia moglie Maria Agostina, per quanto ha fatto per tutti noi. Mi piacerebbe che arrivasse a tutte le famiglie che affrontano problematiche come la nostra. Anche se non mi lamento di certo. Quarant’anni fa non avrei mai pensato di veder compiere tanti progressi in questo ambito. Però vedo molti genitori tristi, affranti, sopraffatti da una situazione più grande di loro, che comporta certamente dei sacrifici soprattutto quando si vuole stare in società. Ecco, vorrei donare loro il nostro sorriso e anche la nostra consapevolezza. Ma questa villa di San Teodoro aiuterà tanti ragazzi, anche della penisola, a compiere importanti passi avanti verso una vita indipendente. Che poi è quello che tutti i genitori sognano per loro. Maria ci crede poco, Giuseppe invece è sicuro di farcela.
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