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Capitano

Una mitica poesia di Withman ha come protagonista chi sa guidare verso il meglio dell’uomo. Che baratro separa questo dai capitani del calcio.

di Alter Ego

“O Capitano, mio Capitano“. È l?inizio della mitica poesia di Walt Withman, struggente ode all?ignoto impossibile eppure concreto, carnale. Inno al mai avuto e al sempre desiderato. Nostalgia della gioventù che si consuma nell?incoscienza dei giorni. Preghiera all?eterna poesia dell?impossibilità del tutto, dell?irrealtà del sempre, che si nasconde nelle pieghe delle cose e mulina le parole mai dette, le promesse mai mantenute, gli amori perduti e mai consumati. “O Capitano, mio Capitano“, faceva recitare sopra i banchi il professore sognatore Robin Williams a una ciurma di marinai studenti, che avvertivano l?eternità della vita, l?infinito dell?anima e non riuscivano a contenerlo nelle ristrettezze della provincia metafisica anglosassone degli anni 50, in cui le limitazioni dell?etica vittoriana, svuotate dal mito della grandeur imperiale, non potevano che creare le premesse per la tragedia finale. “O Capitano, mio Capitano“. Più che un verso, un?epoca, una mitologia, dove comunque il capitano è sempre quello che guida chi non “fu fatto per vivere come bruto, ma per seguire virtute e conoscenza”. Per andar dietro, insomma, a tutto quello che è umano, quello che fa l?umano, che rende la vita degna di essere vissuta. Non sono tante cose in fondo, e per capirlo non c?è bisogno di andare fino in fondo. “O Capitano, mio Capitano“. Dove sei sparito? Quanto sei diverso da questo capitano (la ?c? è minuscola), che sui campi di calcio, come Totti o Maldini, gioca perché i soldi per lui sono più importanti di tutto. O capitano, mio capitano. Perché mi hai abbandonato?


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