Famiglia

Luigi Manconi. Appassionato di minoranze

Dieci anni fa era un professore di sociologia. Poi è diventato parlamentare e leader dei Verdi. Intervista a Luigi Manconi.

di Ettore Colombo

Luigi Manconi (56 anni, sassarese, vive con Bianca Berlinguer, volto e testa del Tg3, e ha una figlia) è sardo, il che vuol dire molto. Dice cose tipo “Mi sono spiegato?” con un timbro di voce autorevole e insieme complice. Sarà il piglio del professore (è sociologo), sarà l?antica militanza nella sinistra extraparlamentare, sarà che fa politica da una vita (è stato senatore e poi anche portavoce nazionale dei Verdi, presiede A buon diritto. Associazione per le libertà e oggi è il ?garante? dei diritti dei detenuti per il Comune di Roma), ma domande e provocazioni finisce che le fa lui.
Quando poi ti prende in castagna persino sul tuo giornale (“Ma cosa dici?! Bonacina voleva dire un?altra cosa”) capisci che se strappi il 18 è solo perché gli stai simpatico. Quello che non capisci è perché il centrosinistra (lista unitaria e dintorni), gente come Manconi la utilizzi poco. Magari temono anche loro i brutti voti (materie d?esame: diritti, giustizia e civiltà), preoccupati come sono solo di quelli elettorali. La verità è che a parlare con Manconi il tempo vola, tra una battuta salace sull?attualità e un ricordo mai banale sul passato, compresa un?insospettata militanza nel Movimento studentesco, sì, ma dell?Università cattolica del Sacro Cuore. Manconi è un curioso, della vita e delle persone. Un intervistato che s?interessa all?intervistatore ci mancava.
Vita: Dieci anni fa cosa faceva, Luigi Manconi?
Luigi Manconi: Le stesse cose che faccio oggi. Ero docente di Sociologia a Palermo e concentravo la mia attività pubblica in particolare su due questioni, quella delle tossicodipendenze e quella dell?immigrazione. Non ero parlamentare, cosa che sarei diventato con le elezioni del 1994 candidandomi come indipendente nelle liste dei Verdi. Venivo da una fase abbastanza lunga, durata più o meno un decennio, nel corso della quale avevo dedicato gran parte della mia attività non strettamente professionale a un?azione pubblica in associazioni e movimenti su tali questioni. Oggi che non sono più parlamentare ho ripreso a insegnare a Palermo e dedico il mio tempo a quegli stessi problemi.
Vita: Non fare il modesto. Sei stato uno dei primi a studiare l?immigrazione, in Italia?
Manconi: Sì, è vero, ho cominciato a interessarmi di questioni dell?immigrazione a metà degli anni 80 insieme a quella che è stata una mia maestra di sociologia, Laura Balbo e che incontrai anni dopo, nel momento in cui entrambi, da percorsi diversi, giungevamo all?appuntamento con la questione immigrazione. Stiamo parlando, come dicevo, della metà degli anni 80, e noi coltivavamo un approccio all?epoca ignorato da tutti: c?era qualche attività di natura scientifica e militante ?dalla parte degli immigrati?, ma noi fummo i primi a privilegiare lo studio e l?attività tesi a indagare le reazioni degli italiani. Fu la nostra peculiarità: guardare non agli immigrati ma allo sguardo degli italiani sugli immigrati. In dieci e più anni questo sguardo è cambiato perché ?di malagana?, di mala voglia, come si direbbe in Sardegna, a seguito della dura lezione dei fatti, gli italiani si sono convinti che non esistono solo gli italiani. Quello che ci ha colpito di più infatti è stata la lentezza, la pigrizia, la resistenza con cui non la società italiana ma anche i suoi decisori, gli opinion leader, il ceto intellettuale e giornalistico, i produttori di senso comune accettavano un dato di realtà con grave ritardo, e cioè che la società italiana non era quel monolite monoculturale, monetnico e monoreligioso che ci si illudeva fosse. La società italiana aveva continuato a pensarsi come una società monoreligiosa anche quando non lo era più da un pezzo, sia ignorando le religioni di minoranza (dagli ebrei ai valdesi, pensati come ?stranieri? anche quando erano presenti nel nostro Paese da secoli), sia il fatto che i processi di secolarizzazione rendevano minoranza la maggioranza di religione cattolica. Era fatale, quindi, che quando infine si fosse registrato l?impatto con una realtà diversa si sarebbe diffuso un sentimento di angoscia, sentimento che però è stato meno dirompente di quello che potevamo temere diventasse. In Italia, infatti, è mancato un vero e proprio imprenditore politico dell?intolleranza, presente invece in pressoché tutti i Paesi europei, dove si è affermato, secondo dinamiche altalenanti, un partito politico che faceva della lotta contro gli stranieri il primo e spesso unico tema dell?agenda politica.
Vita: Mi scusi, e la Lega di Bossi?
Manconi: Ecco, contrariamente a quanto si crede, la lotta contro lo straniero è sempre stato il secondo, se non il terzo, se non il quarto, argomento di polemica della Lega e non è mai stata la prima e fondativa ragion d?essere del suo movimento. Proprio la presenza della Lega, unita a un insediamento territoriale circoscritto e al fatto che nel nostro Paese vi fosse una resistente sedimentazione delle culture cattoliche e socialista, ha impedito che l?angoscia della gente comune diventasse mobilitazione aggressiva e che la xenofobia, cioè il sentimento di paura dell?altro, si trasformasse in razzismo. Questo non vuol dire che non ci siano stati episodi e atti d?intolleranza e di aggressione verso gli immigrati (quasi uno al giorno: una frequenza notevolissima) ma tutto ciò non ha mai raggiunto la forma di un movimento, cioè di una mobilitazione collettiva, di un sentimento popolare che si trasformava in aggressione costante. Questo fa anche sì che in Italia, rispetto alla Francia e all?Inghilterra, ci sia meno razzismo ma anche meno integrazione: in questi altri Paesi convivono livelli più radicali di violenza ma anche livelli più avanzati di integrazione. In Italia c?è un livello più ridotto di violenza ma anche un livello più basso d?integrazione perché residenti e stranieri sono ancora distanti.
Vita: E le proposte di voto agli immigrati? Fini non è un loro amico?
Manconi: Guardi, il mio giudizio sulla legge Bossi-Fini è che sia una legge che costituisce un fatto regressivo molto grave perché collega in modo ferreo la permanenza in Italia con lo svolgimento di un?attività lavorativa, riducendo lo straniero a forza lavoro. L?immigrato cioè ?è? la sua attività lavorativa. Questo principio fa sì che anche la ventilata proposta di voto alle amministrative appaia come un?aporia ideologica non scioglibile: la possibilità di voto è l?essenza della qualifica di cittadino, ma tale qualifica non dipende dall?attività lavorativa ma dipende dal suo essere presente su un territorio e da un sistema di diritti-doveri. Per me un cittadino disoccupato resta un cittadino, per Fini no. Ma di questa incoerenza deve rispondere Gianfranco Fini, non io. Tornando al paragone con dieci anni fa, sicuramente la legge Turco-Napolitano è stato un passo avanti, nell?acquisizione dei diritti degli stranieri, ma quello che mi preme far notare è come in questo decennio ancora una volta il luogo da cui emerge la tutela maggiore dei diritti è il decentramento. Sono ormai molte le amministrazioni comunali dove si è arrivati a fare il consigliere comunale straniero: proprio in queste settimane si sta vivendo a Roma una fondamentale esperienza democratica, dove per votare il consigliere comunale aggiunto si sono iscritti nelle liste elettorali oltre 30mila stranieri. Questo è un fondamentale passo in avanti, sul piano dei diritti. I diritti quindi mi sembra vengano più fortemente tutelati a livello decentrato. Non eleggi il sindaco di Roma, con il consigliere comunale aggiunto, ma fai grandi passi in avanti nel rapporto di prossimità e di vicinanza con gli stranieri: è la differenza tra la folla anonima e i cittadini con nome e cognome, una differenza gigantesca dal punto di vista simbolico-culturale.
Vita: Per i diritti degli stranieri, dunque, vince la prossimità. E per i diritti dei detenuti?
Manconi: Presentai, nella passata legislatura con le associazioni A buon diritto e Antigone, un disegno di legge per l?istituzione della figura del difensore civico dei detenuti, o meglio “delle persone private della libertà personale” (formula pedante ma giusta, perché aspira a tutelare anche chi si trova nelle caserme o altrove, cioè tutti coloro che sono privati di libertà personale). Un disegno di legge che è stato ripresentato anche in questa legislatura e ha ottenuto forti consensi trasversali, dal centrodestra come dal centrosinistra, oltre ad aver tenuto un importante convegno sull?argomento col patrocinio del presidente della Camera. Il testo dunque procede, lentamente ma procede: nelle more abbiamo deciso di sperimentare e anticipare la materia a livello locale. Nel luglio del 2002 ho telefonato al sindaco di Roma, Veltroni e gli ho detto “Perché non proviamo a fare questa cosa?”. Dopo undici mesi era già pronta la delibera. L?ufficio nel quale mi sta intervistando è quello del difensore civico dei detenuti del Comune di Roma. Ma lo si sta facendo anche a Napoli, Genova, Torino, Pisa, Cosenza e Milano, ed è stato già istituito a Bologna e Firenze, amministrazioni pure di segno politico opposto. Dunque abbiamo verificato di nuovo una migliore possibilità di tutela dei diritti, a livello locale, e una unanimità di consensi certamente più rapida, efficace e concreta di quella di livello centrale o nazionale.
Vita: Ci sono altri progressi, nella sfera dei diritti, che vuole sottolineare?
Manconi: Sì. Innanzitutto in questi dieci anni c?è stata una grande trasformazione per quanto riguarda la domanda di diritti delle minoranze sessuali. In particolare è cambiata molto la qualità della domanda del movimento omosessuale in Italia: resta, ed è inevitabile e giusto, una domanda in termini di diritti civili (rifiuto di ogni discriminazione, riconoscimento di garanzie) ma accanto all?affermazione di libertà è emersa con più forza la richiesta di riconoscimento di un sistema di valori. Il movimento omosessuale, cioè, come titolare di valori e non come semplice negazione dei valori dominanti o trasgressione rispetto agli stili di vita della maggioranza. La richiesta di riconoscimento di coppie di fatto, registro delle unioni civili, Pacs o altro, nasce da questo: la domanda di riconoscimento di un progetto, nel rapporto, cioè di una prospettiva condivisa nutrita di solidarietà, mutualità, reciprocità. Una novità fondamentale, perché per decenni si è pensato alle minoranze omosessuali come mera affermazione di trasgressione o, se si vuole, di libertinaggio sessuale. Questo resta, ma l?elemento più forte della storia del movimento omosessuale più recente è quell?altro, l?affermazione di valori. Un passaggio epocale: dieci anni fa nessuno voleva nemmeno andarci a parlare, con gli omosessuali.
Vita: Ma non è finita qua, vero?
Manconi: Un altro grande tema è quello che riguarda i diritti del malato: sto parlando del testamento biologico (che non c?entra nulla con l?eutanasia!), strumento formidabile contro l?accanimento terapeutico. Dieci anni fa i diritti del malato avevano già conosciuto un?importante trattazione grazie al Movimento federativo democratico e al Tribunale dei diritti del malato: si deve a loro che in molti ospedali oggi funzionino sezioni e presidi per la tutela di chi giunge in ospedale e viene spogliato, oltre che degli abiti, di ogni diritto. Questo diritto all?informazione o al consenso informato del malato ha conosciuto con gli anni una successione intensa di atti giuridici, dalle convenzioni europee alle sentenze dei tribunali, che affermano il principio del “nessun trattamento sanitario senza il consenso del diretto interessato”. A partire da questo percorso la Consulta di bioetica di Milano con me e altri parlamentari ha visto presentare un disegno di legge sul testamento biologico, ovvero la dichiarazione anticipata di volontà nella quale il soggetto, in condizioni di intendere e di volere, sottoscrive un documento relativo ai trattamenti sanitari cui verrà sottoposto qualora non fosse più in grado di intendere e di volere e su chi autorizza, nel caso, a decidere in sua vece. Qui c?è un punto molto interessante: grazie a un lavoro di pressione sul sistema politico e sui media abbiamo ottenuto un risultato importante, e cioè che il Comitato nazionale di bioetica, di nomina governativa, alla fine del 2003 abbia approvato un documento dove si elabora una soluzione di compromesso che rappresenta un passo in avanti: vi si dice che il medico ha l?obbligo di mettere per iscritto la sua eventuale volontà di non ottemperare alle richieste del paziente e vi si invita il legislatore a legiferare in materia. Voglio, con tale battaglia, che delle scelte del malato si tenga conto e si eviti ogni sofferenza inutile.

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