Welfare
1° maggio: festa anche in Internet?
I recenti terremoti del Nasdaq hanno notevolmente ridimensionato la grande Rete, rivelando una verità finora nascosta o volutamente ignorata: la condizione di chi lavora nella new economy
I recenti terremoti del Nasdaq hanno notevolmente ridimensionato la grande Rete, rivelando una verità finora nascosta o volutamente ignorata. Articoli di giornale e siti come http://netslaves.comhanno raccontato storie di sfruttamento, tanto da far guadagnare ai lavoratori l’appellativo di “schiavi del web”.
Nel 2000 negli USA i licenziamenti nel settore sono stati oltre 40 mila e sono sempre di più i dipendenti di società, come Amazon.com, che si sono rivolti al sindacato delle comunicazioni per avere tutele e garanzie. Si parla di clamorosi scioperi, in aziende dove le voci di tagli del personale si sono fatte più insistenti, che potrebbero preludere alla rinascita delle Trade Unions, tradizionalmente molto combattive oltreoceano.
Negli Usa il web dà lavoro a tre milioni di persone. Molti sono diventati miliardari ma moltissimi hanno fallito miseramente. Basti pensare alle migliaia di persone licenziate proprio in questi giorni sia dalle piccole dotcom, che da società che sembravano stabili sul mercato.
E in italia?
E’ forse questa una delle motivazioni che ha portato alla legge sull’editoria, tanto contestata, ma difesa per l’appunto dall’ordine dei giornalisti. Giornalisti web che non venendo equiparati ai propri colleghi della carta stampata, hanno intravisto nell’intervento del legislatore fondi da destinarsi al riequilibrio delle garanzie professionali ed economiche. Sì, ma.
Non essendo obbligatoria la registrazione di testate e la relativa assunzione di un direttore responsabile, come intendono relatori ed estensori della legge, nel caso il sito in questione lo faccia per recuperare i finanzaimenti pubblici, chi e cosa vincolerà questi fondi alla buona causa del singolo lavoratore? Chi o cosa garantirà che quei fondi non finiranno più semplicemnte ad implementare il progetto o più verosimilmente a colmare le perdite societarie che i siti di informazione ufficiali hanno accumulato in questi anni? Per ora nessuno.
Il problema non è questo
E infatti il vero problema non è questo. Non può essere infatti circoscritto alla sfera della semplice editoria, per quanto sia questa uno fra i settori di maggiore investimento per Finanza e Industria negli ultimi anni.
Il problema sembra essere più vasto se Giuseppe Roma, direttore del Censis, sulla base dei dati racoclti dalla ricercadello stesso Istituto nel gennaio 2001, dice “Il lavoro non standard, quello non regolato dal sindacato, non gerarchico ma che prevede una forte capacità individuale in Italia è ancora all’11%, molto basso rispetto al “contingent work” che negli Stati Uniti raggiunge il 30%.”
“In questi ultimi 10 anni abbiamo visto un’emorragia continua del posto fisso tradizionale, di quello a tempo indeterminato, subordinato, dal lunedì al venerdì, otto ore al giorno e magari le ferie ad agosto. Questo di pari passo ad un’esplosione di nuove forme di lavoro, sotto il tipo della collaborazione, di consulenza, magari come free lance” conferma Pierangelo Giovannetti, autore di “Posto fisso addio”, (Baldini e Castoldi).
“Da una parte è stata una necessità – continua Giovannetti – perché sia la rivoluzione informatica che quella tecnologica che la globalizzazione hanno spinto le imprese ad una flessibilità, dall’altra è stata anche un’esigenza che i giovani esprimono sempre di più di modellare a proprio piacimento il proprio tempo professionale, e anche di vedere il lavoro non più come un posto che si conquista per la vita, ma come un progetto”.
Non tutti sono d’accordo
Così accanto a programmatori e webmaster sono diverse le figure più richieste nella new economy. Secondo una ricerca dell’ufficio americano Bureau of Labor Statistics, gli informatici e le professioni collegate sono in testa alla classifica dei nuovi lavori più richiesti nel terzo millennio.
Di fronte a tanta richiesta tuttavia corrispondo altalenanti andamenti della new economy, che sembra così necessitare di professionisti senza apparentemente essere capace autonomamente di affrontarne i relativi costi.
Ma è proprio in questo senso, fra la domanda (alta) di professionisti e professioni e l’offerta (bassa) di risorse economiche, che stanno nascendo attraverso i sindacati o per iniziative private, forme di sostegno ai “new workers”, ovvero ai nuovi lavoratori della neteconomy.
In America, ad esempio, si è attivato da poche settimane il fronte sindacale. Tornano in campo le Trade Unions, tradizionalmente molto combattive oltreoceano, che erano state sempre tagliate fuori da aziende freneticamente impegnate a investire e assumere precariamente. I sindacati che non trovavano ascolto nei nuovi lavoratori “zittiti” dalla promessa di partecipazione agli utili, poi non onorata, ora vengono invocati dai dipendenti di alcune aziende famose.
Internet come in fabbrica?
Se Internet è il luogo per un potenziale sfruttamento, è anche il luogo dell’autorganizzazione dei new workers. Ecco allora che negli ultimi tempi sono nati siti come www.washtech.org in cui si possono trovare informazioni sulle azioni individuali o collettive con cui opporsi alla net-slavery. Nella dichiarazione di intenti di WashTech leggiamo: WashTech è una organizzazione di lavoratori ad alta tecnologia che si uniscono per dotarsi di una voce efficace nell’arena legislativa e nel campo sindacale, per ottenere migliori salari, e per affermare i diritti del lavoro.
In Italia una prospettiva di questo genere è soltanto ai suoi inizi. Chi lavora nelle aziende della new economy, o nel ciclo della produzione comunicativa si considera spesso un privilegiato. Ma qualche segnale di approfondimento critico comincia a vedersi. Ad esempio all’indirizzo www.ecn.org/sortal è in allestimento un portale destinato ai problemi del lavoro flessibile e agli effetti della new economy nella vita sociale e psichica dei lavoratori. E recentemente è stato lanciato un sito che si chiama ironicamente www.labellavita.org dedicato alle psicopatie e alla miseria affettiva prodotta dallo stress da competizione e dalle illusioni della new economy.
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