Idee Innovazione sociale

Il welfare comunitario? La sfida culturale e politica per un Terzo settore generativo

Asti, Milano, Franciacorta e altre ancora. Sono tante le esperienze di servizi ridisegnati in un'ottica di welfare comunitario e di economia civile. Modelli che definisco un nuovo modo di essere "Terzo settore politico"

di Andrea Morniroli

Succede che nell’Astigiano la cooperativa sociale Piam, insieme a istituzioni attente e non scontate, faccia diventare una struttura di accoglienza per rifugiati un luogo bello e piacevole da vivere.  Talmente piacevole che i servizi sanitari chiedono alla cooperativa di poter portare nel parco della struttura, durante i periodi caldi, i malati di alzheimer, a prendere un po’ di fresco. Guarda un po’: questi due universi follemente distanti si annusano, all’inizio si guardano un po’ di sottecchi ma poi si riconoscono e iniziano a piacersi. Parte una relazione, e poi anche una “convivenza”,  oltre i momenti classici: nascono le cene sociali, e dalle cene sociali viene fuori l’idea di aprire una piccola trattoria che oggi è realtà, creando economie e occasioni di lavoro per alcuni dei ragazzi ospitati nel centro di accoglienza. E così, di sera, capita spesso che i ragazzi gambiani suonino i “djembé”  e le persone cantino. E capita anche che i giovani rifugiati si trasformino agli occhi di tutti da pericolosi clandestini a portatori di occasioni per il territorio, per la cura di una delle sue componenti più fragili, per lo sviluppo locale, per il benessere e il divertimento di tante e tanti.

E poi succede ancora che a Milano, dentro all’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini, ci sia un ostello che per il 70% cento è commerciale e per il 30% dimora di persone che hanno vissuto e vivono situazioni di fragilità  mentale e che lì, senza essere chiusi o contenuti, hanno trovato le chiavi della loro esistenza, sentendosi parte di un progetto quando siedono a colazione con i turisti che arrivano a Milano da tutto il mondo. E capita che attraverso i loro racconti si riscopra Basaglia e tanto altro; si scopra soprattutto che  “da vicino nessuno è normale”, come recita una scritta all’ingresso della struttura magistralmente attivata dalla cooperativa Olinda e da tanti altri soggetti pubblici e del privato sociale.

E poi accade che in Franciacorta che un dipartimento di salute mentale e una cooperativa sociale decidano di rinunciare alla certezza di una comunità protetta da 14 posti per reinventarsi percorsi domiciliari per utenti complessi (quelli che normalmente finiscono nell’istituzione), costruiti insieme ai comuni e agli ambiti territoriali, alle associazioni del territorio, alla cittadinanza attiva. E così rendono possibile occuparsi non solo dei 14 ospiti dimessi dalla comunità a inizio 2024, ma di altre 30 persone che in comunità non sono entrate, usando le stesse risorse economiche, mettendo in moto la ricchezza del territorio che si riscopre inclusivo e solidale.

Potremmo continuare in questo elenco di pratiche e movimenti, competenti e lungimiranti, che legano in modo stretto la cura delle persone con la cura dei luoghi; e intrecciano il fare sociale con la rigenerazione e la produzione di economie. Scambi in cui gli operatori e le operatrici provano a mettere in discussione il loro potere e a uscire dalle asimmetrie che si producono nelle cornici troppo strette di tanti servizi, nell’incantesimo rassicurante delle scrivanie, dove c’è qualcuno che offre soluzioni pre-confezionate e qualcuno che è in attesa passiva di riceverle. Luoghi che mettono in pratica il tentativo di trasformare il sistema di welfare e del sistema sanitario, passando da forme assistenziali, contenitive e istituzionalizzanti, estremamente costose e inefficaci quando non disumane e divoratrici di capitale sociale e delle capacità delle persone stesse, a modelli di welfare comunitari, generativi, strutturalmente intrecciati con sistemi di economia civile produttiva. Modelli che, al contrario, si alimentano vicendevolmente e amplificano capitale e coesione sociale, libertà e capacità delle persone e, insieme, le risorse economiche, come alternativa all’esistente. Modelli che funzionano meglio e in modo più economico dei servizi tradizionali, più costosi e meno benefici per le persone, perché nel parlare di sicurezza producono solo insicurezza essendo votati non a risolvere problemi ma a costruire una narrazione  tossica intorno ai problemi, una narrazione che trasforma chi fa fatica, è diverso o fragile in nemico opportuno da utilizzare per quotare la paura sul mercato del consenso elettorale.

Sono esperienze in cui pubblico, cooperazione sociale e civismo attivo ritrovano un’alleanza di senso e di prospettiva, nella chiarezza dei ruoli. A iniziare da quello di governo e di coordinamento pubblico, in cui però quest’ultimo non delega la propria responsabilità e non pensa agli altri attori come meri gestori di politiche altrui ma come co-attori di programmazione e gestione, in uno spazio dove tutti sono disponibili a condividere potere su indirizzi e uso delle risorse.

Ed è in questo abitare una dimensione politica e culturale che oggi si ritrovano e si stabilizzano le forme di un’alleanza pubblico-privato che non si limitano a gestire l’esistente, spesso a contenere le persone, ma riescono a “immaginare il possibile”

Ed è in questo abitare una dimensione politica e culturale che oggi si ritrovano e si stabilizzano le forme di un’alleanza pubblico-privato che non si limitano a gestire l’esistente, spesso a contenere le persone, ma riescono a “immaginare il possibile”. A lavorare per qualcosa che non c’è ancora ma che può essere. A prendere in carico le persone ma anche a cambiare i contesti per intervenire sulle patologie che producono le fragilità di quelle persone. Insomma, a trovare la loro ragione d’essere, a sentirsi beni collettivi e pubblici necessari a rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Sono luoghi e soggetti che hanno saperi forti, perché propongono cose che si possono fare: già si stanno facendo.

Ma per essere davvero efficaci, tutte queste esperienze devono ancora fare un passaggio: devono diventare capaci di riconoscersi, di fare alleanza, di accettare la fatica ma anche la bellezza del costruire insieme. Del mettere insieme un pensiero che sappia pesare sulla politica e sui decisori. Soprattutto, devono ritrovare i linguaggi e le narrazioni per tornare a orientare il senso comune verso la cura e non verso il rancore. Grazie a questa capacità, possono smetterla di delegare ad altri la propria rappresentanza trovando una comune partitura, smettendo di accontentarsi dello “straordinario” senza riuscire davvero a diventare politiche ordinarie  e pubbliche.

Ne abbiamo l’urgenza. Pena, finire a gestire ultime stanze altrui o accodarci alle spinte di privatizzazione dei servizi e delle persone.

Foto: pagina Fb Olinda/Paolo Pini


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