Binita Aryal sorride e sulla pelle olivastra nascono due fossette sulle guance. Ha 32 anni, è una donna in pace. Sempre impegnata ma mai in affanno. Ha la voce lieve. «Sono la madre di 60 bambini», dice.
E la sua vita quotidiana è la dimostrazione che quelle parole non sono un luogo comune. Non sono tutti bambini quelli che accoglie, alcuni sono già adolescenti. Sono arrivati da piccoli e sono cresciuti qua. Erano quelli che in Nepal si chiamano “bambini di strada”. Bambini orfani o nati in famiglie talmente povere che i genitori non potevano prendersene cura.
In Nepal, uno dei Paesi più poveri del mondo, ce ne sono circa 5mila, ma è una stima al ribasso. Non esiste un dato governativo ufficiale. In questo Stato dell’Asia meridionale, una striscia compresa – quasi schiacciata – tra il Tibet e l’India, vivono 30 milioni di persone, il 27% sono minori. Un terzo della popolazione vive sotto la soglia di povertà, la disoccupazione supera il 40%. «Abbiamo le montagne», ha raccontato un avvocato locale, «ma le montagne non le possiamo mangiare». E infatti qui la gente sopravvive con gli aiuti internazionali.
Le strade di Katmandu, la capitale del Nepal, riempiono gli occhi e le narici di smog, le orecchie di rumori. I piedi scivolano sul fango. Tra giugno e settembre è la stagione dei monsoni, le piogge si scatenano sul Paese, e lo scroscio delle gocce che cadono copre i rumori del traffico del centro della città e delle strade che portano ai villaggi nella valle di Katmandu.
Binita vive in uno di questi villaggi, quello di Dhapasi. In una piccola stradina perpendicolare alla strada principale – dove le galline girano libere e i vestiti si stendono in strada – c’è il cancello d’ingresso di quella che oggi è la sua casa, ma anche di suo marito, Indra, 35 anni, e dei 60 bambini e bambine, ragazzi e ragazze che vivono con loro: hanno dai 10 mesi ai 18 anni. Tutti li chiamano Āmā e Pōpa. Mamma e papà. «Sono tutti figli nostri», dicono. L’ultima arrivata si chiama Arusmi. «Arusmi, Namasté», ma lei risponde sempre: «No no no no no». Ha dieci mesi, cammina già spedita tra le stanze e nel cortile della casa, cerca sempre Binita. Una casa su tre piani, oggi sede di “Our children foundation Nepal”, la realtà che Binita ha fondato nel 2011.
Una casa grande, ma piccola per una famiglia tanto numerosa. Una casa accogliente, ma senza cucina: il cibo si cuoce su un fornello a gas. Si mangia insieme, seduti a terra, nella sala comune al primo piano, la stessa dove si fanno i compiti, si cena e si fa meditazione. L’ultimo momento del raccoglimento mattutino finisce sempre così: Binita poggia le mani sugli occhi, poi poco alla volta le allontana. I bambini la imitano. Le mani sono uno specchio immaginario, lo guarda e poi dice: «Ora fatevi un sorriso». Binita si sveglia sempre la mattina alle quattro, anche prima a volte, per preparare la colazione per tutti. Cucina il “dal bhat”, riso e lenticchie. Un piatto tipico nepalese, un piatto economico. Binita aiuta le bambine più piccole a legarsi i capelli prima di andare a scuola. Crea un fila lunga, prende per mano il primo o la prima della coda e li accompagna sulla strada principale dove aspettano l’autobus che li porterà a scuola. Binita fa tutto col sorriso stampato in faccia, lo stesso che le fa venire le fossette.
Com’è iniziata
Quando Binita aveva 16 anni si è trovata tra le mani un giornale. «Lì ho letto la storia di 5 bambini, fratelli e sorelle, che vivevano in strada, abbandonati. Chiamai in quella redazione “come faccio a prendere io i bambini?”. Mi risero letteralmente in faccia. Mi dissero: “sei troppo giovane, non hai i soldi, non hai una casa, non hai un’organizzazione umanitaria”. Ma quei bambini non avevano niente: né un genitore, né un tetto, né un po’ di cibo. E io non mi sono fermata. Ho provato a rintracciarli tramite il giornale, poi ho preso contatti con il Governo. Ma niente. Solo sei mesi dopo mi richiamò un funzionario governativo: “li vuoi ancora quei bambini?” Certo che li volevo, li amavo ancora prima di accoglierli».
In Nepal l’adozione – nazionale ed internazionale – è un percorso complicato, in molti casi impossibile. « “Our children foundation Nepal” è nata con i miei primi cinque figli: Samundra, Nabin, Manisha, Niruta e Sita. Vivono ancora qui con me e mi aiutano con i bambini più piccoli». Manisha, per esempio, oggi ha 16 anni e un sogno: «voglio diventare fashion designer e poi cucire vestiti, anche le scarpe. Guardo i video su YouTube per imparare. Comprare i vestiti costa troppo, se imparo posso farli io per i miei fratelli e le mie sorelle».
I bimbi non hanno vestiti loro, ogni mattina li raccolgono da un cesto e se li scambiano. Tutto quello che i bambini possono fare da soli, lo fanno: la loro indipendenza si è costruita sulla necessità. Negli anni sono arrivati altri minori, «altri figli e figlie», dice sempre Binita. «Spesso il Governo ci segnala i bambini di strada, chiedendoci di accoglierli. Allo stesso tempo, però, non supporta economicamente la nostra struttura. Così andiamo avanti con le donazioni private e grazie all’aiuto di alcune volontarie che durante il giorno si occupano, insieme a me e Indra, dei bambini. Ma soprattutto contiamo sull’aiuto dei fratelli e delle sorelle più grandi che si prendono cura dei più piccoli. Indra, che ha 35 anni, per tanto tempo ha lavorato in Arabia Saudita, anche 18 ore al giorno e tutto quello che guadagnava lo inviava a me per i bambini che accoglievo. Poi ha scelto di tornare in Nepal».
Gli operatori e le operatrici di Fondazione Progetto Arca, insieme a un gruppo di volontari, sono volati a Katmandu per incontrare Binita e Indra. «Abbiamo deciso di sostenere “Our Child Protection Foundation” per dare la possibilità agli ospiti di avere un futuro migliore», spiega Alberto Sinigallia, presidente di Progetto Arca. Binita e Indra, come tutti i genitori, hanno desideri per le vite dei loro figli: «che possano studiare e costruirsi una vita fuori dalle mura di questa casa, una vita piena di possibilità. Che siano persone felici, nonostante tutto. Ad oggi non possiamo accogliere più bambini, non abbiamo più posti».
Casa di Binita e Indra odora inevitabilmente di corpi. È una casa affollata. Ma assomiglia a un oasi nel deserto. E per capire quanto vale quell’oasi nel deserto dobbiamo cambiare prospettiva, punto di vista. Quale sarebbe stata la vita di Arusmi, Shiva, Sankar, e ancora di Nabin, Manisha, Niruta se fossero rimasti in strada? Per fortuna non lo sappiamo. Quello che sappiamo però è che Binita Indra hanno costruito molto di più di una casa di accoglienza. Hanno costruito una famiglia dove si impara a conoscersi e a prendersi cura gli uni degli altri. Hanno anche costruito un luogo dove in mezzo alla difficoltà si coltivano le possibilità.
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