Formazione

Ilaria Alpi il buio mai finito

Il 20 marzo 1994 veniva uccisa a Mogadiscio la giornalista del Tg3. Dieci anni dopo l’identità del suo assassino è lontana.

di Angelo Ferrari

Il 20 marzo 1994 a Mogadiscio Nord vengono uccisi i giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Un agguato organizzato, premeditato, preparato nei particolari. Un omicidio. Perché e per mano di chi? A dieci anni di distanza queste domande rimangono senza risposta. Indagini, intrighi, depistaggi. Processi, tanti. E ora una commissione di inchiesta parlamentare. Fiumi di parole. Carte, milioni di pagine tese a riscrivere quel pomeriggio di Mogadiscio. Senza un risultato. Senza che i mandanti e gli esecutori siano stati assicurati alla giustizia. O meglio: l?unico risultato che ha ottenuto chi conosce la verità è stato quello di ingarbugliare, gettare fumo negli occhi, insabbiare. E intanto i sospetti sono cresciuti, ma con questi non si fanno i processi e non si arriva alla verità. La verità è ciò che animava Ilaria Alpi nel suo lavoro. Verità e passione per l?Africa, per la Somalia in particolare. Profonda conoscitrice della lingua araba, anche grazie agli anni trascorsi in Egitto: da lì Ilaria aveva lavorato per Paese Sera, Italia Radio e l?Unità. Nel 1990 è assunta da Rai Sat e nel 1991 viene trasferita alla redazione esteri del Tg3. In Rai entra da praticante, attraverso un concorso, nel marzo 1989. Nel cuore di Ilaria, però, c?è la Somalia. Il Tg3 la invia per ben sette volte in quell?angolo del Corno d?Africa. Fino all?ultima, quella fatale, del marzo 1994. Proprio in quei viaggi inciampa nella pista giusta, quella che la media dei giornalisti italiani chiamano l?occasione della vita, dello scoop, che per Ilaria, invece, è stata la ragione della morte. Ci lavora. Scava. Intervista. Prende contatti. Capisce che non può tornare indietro. Ma la ragione non è il gusto dello scandalo ma piuttosto quello della verità. La stessa verità che l?ha condotta nei servizi sulla guerra, sulla condizione femminile in Somalia e su tanti altri argomenti che dello scoop non avevano il sapore. Piuttosto, potremmo dire, si sentiva prossima a quel popolo così abituato a subire le angherie della politica, della guerra e della storia. La stessa passione ha portato la Alpi nel 1993 a scrivere un acquarello di Mogadiscio su Il Passaggio. Non si possono dimenticare le note, sintetiche, con cui la Alpi descrive il malaffare della cooperazione. “Per la strada, percorsa da veloci mezzi militari e da più lenti asini o automezzi civili sovraccarichi di persone e cose, non si spara più”, scrive ancora la Alpi. “Ma dire che le milizie non hanno più armi, questo nessuno lo può affermare. Il dramma Somalia è ancora in scena. Rovine, calcinacci, vetri, questo è lo sfondo contro il quale si muovono gli attori: il sipario non è ancora sceso”. In questo teatro si muoveva Ilaria Alpi, arrivando a un passo dalla verità. Forse l?ha toccata, ma noi non possiamo saperlo, perché delle cassette della telecamera di Hrovatin ne sono state ritrovate solo sei. Le altre? Ci sono solo frammenti, ipotesi. Un professionista come Miran non arriva in Somalia con solo dieci cassette, quelle ritrovate, di cui quattro, però, riguardavano un viaggio nei Balcani. Di sicuro la pista nella quale è inciampata Ilaria Alpi (inciampata perché lo voleva), riguardava il traffico d?armi e quello di rifiuti tossico nocivi. Questa è la ragione della sua morte. Da un anno stava seguendo quella pista e nell?ultimo viaggio, a Bosaso, dopo l?intervista al sultano della città, la verità l?aveva forse in pugno. Scritta sui suoi taccuini. Fissata nelle videocassette di Hrovatin. Ma tutto ciò non c?è più. Il 20 marzo 1994 a Mogadisco un commando la uccide a sangue freddo. Qualcuno a Mogadisco, o sulla nave Garibaldi dove viene portato il cadavere, oppure sull?aereo militare che trasporta la bara in Italia, fa sparire le prove del lavoro di Ilaria. Qualcuno che ha deciso che è più importante la ragion di Stato (quale Stato?) della verità, ma soprattutto della vita di due persone. Una barbarie senza fine. Una barbarie proseguita in tutti questi anni di processi e indagini senza risultati apprezzabili. Il coinvolgimento, almeno nel depistaggio, dei servizi segreti italiani è evidente. Nessuno sapeva, nessuno sa, eppure in quegli anni la presenza di agenti del Sismi nel Paese era a dir poco capillare. Uno di loro, amico di Ilaria, Vincenzo Li Causi, è stato ucciso in circostanze misteriose e anche questo assassinio non ha trovato ancora un colpevole. Eppoi i testimoni. L?autista di Ilaria che prima dice di non aver visto il commando, poi, dopo l?arresto di Hashi Omar Hassan, dice esattamente il contrario. Hashi verrà assolto in primo grado, condannato all?ergastolo in appello e il 26 giugno 2002 la Cassazione riforma la sentenza e gli abbassa la pena a 26 anni. L?autista della Alpi, Said Ali Abdi, diventa, invece, un collaboratore di giustizia che l?8 settembre 2002 torna in Somalia e pochi giorni dopo viene trovato morto nella sua casa di Mogadisco, acquistata con i soldi ricevuti per la collaborazione con la giustizia. Si parla di 25mila dollari. Curiosa storia. Said depone nel 94 durante il processo e ritorna in Italia nel 98 per la nota vicenda delle torture messe in atto da alcuni militari italiani nei confronti di somali. Sull?aereo quel giorno c?è anche Hashi, ma Said non lo riconosce, però poi ci ripensa. Un altro accusatore di Hashi, ritrovato dall?allora incaricato diplomatico italiano per la Somalia, tale Jelle, che ha detta del diplomatico sarebbe il testimone chiave, sparisce nel nulla. Hashi non ha sparato, però faceva parte del commando, almeno così si sono espressi i giudici. Ma Hashi apparteneva davvero al commando che ha ucciso Ilaria, oppure è un semplice capro espiatorio costruito ad arte? E di tutto questo, così come dei traffici di rifiuti tossici e di armi, i nostri servizi di intelligence non sanno e non sapevano nulla? C?è poi il calvario dei genitori di Ilaria, Giorgio e Luciana Alpi, che con tenacia si stanno battendo per restituire verità alla storia della loro figlia. Un calvario che è un monito per tutti noi, liberi cittadini, giornalisti, politici e uomini di governo di allora e di oggi. Chi ha deciso di uccidere Ilaria e ha armato gli assassini, ha fatto, forse, un semplice ragionamento: bisogna uccidere la fonte della notizia. La fonte era Ilaria Alpi. È diventata un simbolo della libertà di stampa, della passione per la verità, e il segreto non risiede solo nella sua indubbia professionalità ma, soprattutto, nel modo che aveva di fare giornalismo: essere vicini, pelle a pelle, a ciò di cui si scrive. Guardare negli occhi la realtà, sentirla parte di se stessi. In una parola: amarla.


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