Scenari europei

Caregiver: un altro modello è possibile

La sociologa di Ca' Foscari Barbara Da Roit va alle origini del nostro peculiare sistema di assistenza ai non autosufficienti. Lo fa attraverso una prospettiva comparata che mostra come le condizioni lavorative di badanti e caregiver familiari non siano inevitabili ma frutto anche di precise politiche di welfare e investimento sociale

di Nicla Panciera

«Nessuno è caregiver per scelta». «Caregiver si diventa contro la propria volontà». Sono affermazioni molto comuni in chi si prende cura di un proprio caro che, per ragioni sanitarie o anagrafiche, ha bisogno di aiuto e assistenza. Come se non ci fosse altra scelta possibile se non quella di dover lasciare andare, a poco a poco, tutto il resto – la propria vita personale, familiare e lavorativa – per occuparsi interamente di un’altra persona, magari senza neppure la prospettiva della guarigione. «Non è così ovunque, molto dipende da precise scelte relative ai sistemi di welfare e alle politiche di investimento sociale» spiega Barbara Da Roit, ordinaria di sociologia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, esperta di sistemi di welfare europei. Nei vari paesi, le realtà non sono sovrapponibili e anche quando si crede di usare gli stessi termini per riferirsi alla stessa situazione, si sta parlando di cose molte diverse. Nel caso del caregiver familiare, ad esempio, «sono diverse le cose che fa e con quale intensità. Ma a cambiare è anche tutto il contesto sociale di riferimento».

Principali differenze tra Italia e paesi del Nord

La sociologa ha iniziato a occuparsi dello studio comparato dei sistemi di welfare durante la sua tesi di dottorato di sociologia sperimentale dedicata al confronto tra l’assistenza agli anziani non autonomi a Milano e ad Amsterdam nei primi anni 2000. «Già allora, si trattava di popolazioni con caratteristiche molto diverse tra il Sud e il Nord Europa» ci racconta «Qui, per la mancanza di strutture residenziali socio-sanitarie, si trovano al domicilio anziani molto più gravi cognitivamente e fisicamente, magari allettati, e ciò ha delle ripercussioni su chi se ne prende cura in termini di carico di lavoro fisico ed emotivo. Nei paesi del Nord Europa, invece, esistono servizi più solidi, sia residenziali sia domiciliari, e diverse capacità di intervento». Per quanto riguarda il caregiver familiare, dice «lì curare il proprio anziano è più spesso una scelta. Il numero di persone che svolge attività di cura informale è molto maggiore che da noi, e include anche gli uomini». I caregiver informali, però, spesso non si occupano della cura materiale quotidiana ma svolgono mansioni di coordinamento delle cure e di sostegno psicologico, attività non paragonabili neppure per intensità a quelle che spettano ai caregiver da noi, dal momento che mediamente l’impegno non supera le tre/quattro/ cinque ore a settimana. Inoltre, conclude Da Roit, «c’è una rete di caregivers informali più ampia, mentre generalmente, in Italia, chi si occupa del proprio caro è più solo, il carico di lavoro ricade su un caregiver “designato”, spesso una donna, con un coinvolgimento più limitato di fratelli, sorelle o altri parenti».

Le popolazioni invecchiano, cambia la struttura familiare e cambiano i bisogni di cura. Ma «mentre al nord si è de-familizzata la cura per via pubblica con politiche sociali e forti competenze, nei paesi del sud lo si è fatto con le assistenti familiari, le cosiddette “badanti”, pagate con risorse private mentre le professionalità dei sistemi sanitario e sociale hanno un ruolo complementare». Le cosiddette “badanti” sono oggi pilastro della cura ai non autosufficienti, tra 800.000 e 1 milione di persone, «soprattutto donne e migranti, le cui competenze professionali e condizioni di lavoro sarebbero inaccettabili altrove» spiega Barbara Da Roit. «In Olanda, per esempio, chi non ha una formazione specifica, non parla la lingua, non ha una supervisione a garanzia della qualità e della sicurezza, non potrebbe prestare questo servizio».


La cura considerata come una cosa da donne

Da Roit è vincitrice di un Prin per il progetto «Qualità del lavoro nei servizi di assistenza residenziale a lungo termine in Italia: determinanti e strategie QWoRe» (dall’inglese Quality of Work in Residential long-term care services in Italy: determinants and strategies), cui partecipano anche l’Università Politecnica delle Marche e l’Università Statale di Milano, sul tema della qualità del lavoro nelle residenze per anziani, con un focus sul caso italiano in prospettiva comparata. «Alcune specificità di questo lavoro vanno tenute a mente» spiega la sociologa. «Si è quotidianamente a contatto con persone in condizioni gravi, che devono essere accompagnate alla morte e la difficoltà di immaginare un esito diverso espone a una grande pressione emotiva». C’è poi, «in Italia, una cultura della cura non considerata come una professione vera e propria, con delle competenze, ma un qualcosa che tutti sanno fare naturalmente, in particolare le donne. Questo impedisce un appropriato riconoscimento sociale, cui contribuisce anche la questione di genere, perché i lavoratori di cura sono soprattutto donne e spesso migranti. Con una scarsa capacità di difendere i propri diritti, fatto che crea un circolo vizioso che finisce per aumentare la problematicità delle condizioni lavorative». Le politiche pubbliche e le condizioni organizzative possono fare la differenza. L’analisi comparata può aiutare a capire le condizioni che consentono di migliorare la situazione.

Buone pratiche che funzionano solo altrove

È questo l’oggetto di un progetto di ricerca, finanziato da Horizon Europe e coordinato da Cà Foscari, per individuare e studiare soluzioni efficaci e replicabili nell’ambito della ‘long term care’, di cui Da Roit è coordinatrice. Forse non tutti sanno, infatti, che nel 2023 l’Unione Europea ha lanciato la ‘Care Strategy’, invitando i Paesi a raggiungere obiettivi comuni nel settore della cura di lunga durata (traduzione dell’inglese long-term care), che deve essere accessibile, di qualità – anche rispetto alle condizioni di lavoro, – equa e sostenibile. Il progetto di ricerca comparata si chiama LeTs-Care e coinvolge otto partner in Italia, Olanda, Spagna, Lituania, Danimarca, Portogallo, Austria, e Belgio. «Abbiamo capito che importare in un paese una buona pratica adottata in un altro paese, come ad esempio le cure integrate di quartiere in Olanda, non funziona. Le situazioni dei vari paesi sono molto diverse dal punto di vista culturale, sociale e del welfare per trasferire acriticamente delle best practice senza un’analisi approfondita dei contesti, delle risorse, dei bisogni e soluzioni. Adottare ed estendere una buona prassi significa innanzitutto domandarsi quali sono le condizioni di contesto che è necessario cambiare perché funzioni». Basta pensare che nel nostro paese ancora la grande maggioranza degli anziani è economicamente tranquilla e può permettersi una badante, ma la situazione economica è in rapida evoluzione dal momento che gli adulti di oggi non usufruiranno, come i loro genitori, di un sistema pensionistico sostanzialmente tutelante, e questo è destinato a stravolgere la gestione familiare delle risorse, economiche e di cura.

Foto di Mark Adriane su Unsplash

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