Agostino Riitano

Vademecum (culturale) per trasformare le città

di Anna Spena

Agostino Riitano, manager culturale ed esperto di progetti e politiche di sviluppo locale, ha scritto il libro "Situare utopie. La cultura che trasforma la città”. «In questa epoca le città sembrano deflagrare nelle discussioni sui confini; la perizia tecnologica sembra convergere verso soluzioni che esprimono idee spaventose: difesa, attacco, distruzione. Situare utopie descrive modelli di città che scaturiscono, invece, da modelli di umanità possibili, grazie alla creatività e alla cooperazione», dice

Situare utopie. La cultura che trasforma la città” è un libro (Mimesis Edizioni) che è nato per raccontare come cambiare, anzi trasformareuna città.

«In questa epoca le città sembrano deflagrare nelle discussioni sui confini; la perizia tecnologica sembra convergere verso soluzioni che esprimono idee spaventose: difesa, attacco, distruzione. Situare utopie descrive modelli di città che scaturiscono, invece, da modelli di umanità possibili, grazie alla creatività e alla cooperazione. Reputo particolarmente proficuo, in questa fase storica, tenere desto il dialogo sui modi e sui parametri per costruire le nostre società e riportarle in vita, anziché distruggerle», dice l’autore Agostino Riitano,

manager culturale, autore ed esperto di progetti e politiche di sviluppo locale a base culturale, già direttore di Procida Capitale della Cultura 2022 e direttore presso Pesaro 2024 – Capitale italiana della cultura.

Com’è nato il titolo?

La scelta del titolo è un momento intrigante perché bisogna sintetizzare un’idea e a volte collegarla a una immagine. In questo caso il titolo nasce dal bisogno di connettere in modo immediato l’idea che le utopie sono situabili e che il fatto che la cultura possa trasformare una città o un territorio è un’idea concreta. Solitamente, il desiderio più esplicito con cui vengo a contatto, è quello di cambiare la città, cambiare il territorio, cambiare la comunità. Il progetto è un pretesto: il sogno è trasformare. Al tempo stesso, il cambiamento sembra impossibile. Un’utopia. Tanto più se si cerca di trasformare la città attraverso la cultura. Il mio compito è dimostrare che il sogno è possibile. L’utopia non è un’astrazione fantastica fine a se stessa. Può essere situata. Se l’utopia è situata, allora è una possibilità concreta. Non è un sogno o un desiderio. È una profezia: anticipa qualcosa da compiere.

L’esperienza di Procida (lo abbiamo raccontato nell’articolo “Modello Procida: l’isola che non isola capitale della cultura“, ndr) è stata un successo. Ma quel modello può essere applicato ovunque?

Se per modello intendiamo cooperazione, co-creazione, condivisione, mobilitazione della comunità, accoglimento dell’altro, allestimento di programmazioni culturali sulla forza di valori, allora sì, il modello è applicabile ovunque. I risultati possono non essere gli stessi. Ogni luogo reagisce in un modo, si auto-organizza diversamente, è sensibile a temi diversi o a ogni tema in misura diversa. Ogni luogo propone urgenze o priorità peculiari, pertanto all’interno di uno stesso modello di riferimento, gli strumenti disponibili e adatti a raggiungere gli scopi possono essere adoperati in fasi diverse o con intensità.

Come fa l’isola ad essere insieme “coscienza del limite e visione dell’illimitato”?

L’isola ha coscienza del limite perché conosce la sua realtà, conosce i perimetri geografici nei quali consiste. Al contempo ha visione dell’illimitato perché immagina: la visione rende l’isola padrona del proprio immaginario.

Nel libro parla del sentimento del “non ancora”. Che cos’è?

Per rispondere a questa domanda, devo riprendere la mia idea di utopia. Sulla linea del tempo l’utopia introduce un concetto che è tempo e spazio insieme: l’altrove. “Pensare significa oltrepassare”, diceva Bloch. L’utopia, allora, è il pensiero per eccellenza perché è l’oltrepassamento per eccellenza, infatti offre un obiettivo focale al nostro sguardo sul mondo, ovvero quello di superare l’ovvio decorso degli eventi. Il sentimento del non-ancora ci rende capaci di vedere qualcosa che non esiste in atto, ma esiste in potenza, che scorre latente nel processo storico, e non solo come speranza soggettiva. Ora, dove si trova, esattamente, questa tendenza latente? Nel dolore. Nella paura. Nel desiderio. Nella speranza. Tutti elementi che possono utilizzare il potenziale politico che il passato non ha saputo attuare, che possono individuare le risorse che non sono giunte a espressione storica, articolandosi al di là dell’immediatezza, vedendo le cose nel loro svolgersi. Il non ancora è la nostra capacità di anticipazione: la nostra forza e il nostro destino.

Lei nel libro scrive: “L’esperienza collettiva della cultura non genera prodotti esclusivi. Artisti e cittadini, maestri e allievi partecipano agli stessi problemi. Sono adiacenti”. Che significa essere adiacenti?

Il concetto di “adiacenza” riprende quello della giusta distanza. Adiacente significa accanto. Prossimo. È un tipo di vicinanza che tiene conto dell’alterità, è cauta e delicata. Si ispira al rapporto tra reale e possibile teorizzato dal biologo Stuart Kauffmann, il quale ci insegna che i sistemi complessi delle nostre società sono regni in bilico, in non-equilibrio, tuttavia le parti si influenzano a vicenda, cooperano o confliggono a margine del caos, essendo però sempre prossimi a rimodularsi. Il concetto di adiacente, che Kauffmann definisce “possibile”, ci permette di mettere in dialogo l’effettiva realizzabilità con possibilità inesplorate.

La trasformazione delle città può essere permanente?

Direi che le città, tutte, si trasformano continuamente. I risultati di una trasformazione non possono essere permanenti, già dopo il loro immediato accadere si modificheranno. Se invece vogliamo “controllare” la trasformazione, nel senso che desideriamo indirizzarla in modo consapevole, programmatico al bene comune, allora dobbiamo impegnarci in un’attività costante di cura.  La cura, in ambito sociale e di comunità, può diventare un comportamento permanente e quindi produrre effetti benefici nell’immediato e a lungo termine. Forse vale la pena precisare cosa intendiamo con questa parola. La cura non si limita, come la resilienza, a reagire al trauma. Non interviene solo rispetto alla ferita. Non è solo rimedio o risanamento. La cura è accudimento, è accuratezza e prevenzione, è una disposizione costante all’attenzione e all’assistenza. Si sforza per impedire l’insorgere della “malattia”, tuttavia è pronta ad accoglierla nella sua dignità, indipendentemente dalle speranze di guarigione. La cura non è un servizio o uno strumento, non è un costo sociale, è invece un investimento sul valore della persona, pertanto ingloba nel suo processo l’intervento istituzionale, ma non è dipendente.

Ma come si coinvolgono veramente i cittadini?

I cittadini sono quotidianamente sollecitati all’azione dal caso o dal caos. Se però desideriamo che essi agiscano verso un cambiamento rigenerante, allora dobbiamo interessarci alle pratiche sociali riorganizzate consapevolmente, dobbiamo cercare intenzionalmente gli eventuali vincoli che resistono al cambiamento, infine dobbiamo individuare i punti attorno ai quali la creatività culturale e sociale può concentrarsi. L’attività preliminare al coinvolgimento dei cittadini, in breve, è di osservazione e di ascolto. Bisogna sondare la ricettività sociale, ma anche raccogliere i temi che le persone del territorio reputano importanti. Questa fase serve a costruire un clima di fiducia, senza la quale la comunità non riterrebbe valida alcuna proposta. Guadagnata la fiducia, bisogna poi servirsi di vere e proprie“leve” che attivino la capacità delle persone di agire e di decidere per “raggiungere” uno scopo non individualistico. 

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