Libri

La guerra in Ucraina in 24 storie e senza propaganda

Tradotto in Italia il libro della giornalista russa Katerina Gordeeva. Contiene 24 interviste con i più disparati partecipanti a questo conflitto, che riportano opinioni politiche di tutti i tipi, il che rende questo libro assolutamente obiettivo. Solo una cosa manca: l'ostentata indifferenza verso ogni specifico destino umano, che viene invece spesso utilizzata dalla propaganda di entrambe le parti

di Alexander Bayanov

La casa editrice 21 lettere ha pubblicato il libro della famosa giornalista russa Katerina Gordeeva, Oltre la soglia del dolore.

Katerina è conosciuta in Italia come una degli autori dei materiali per la mostra “Uomini nonostante tutto”, allestita da Memorial e Fondazione Russia Cristiana per il Meeting di Rimini del 2022. Il libro scritto da Katerina ci offre forse uno degli sguardi più onesti sulla guerra tra Russia e Ucraina.

Contiene 24 interviste con i più disparati partecipanti a questo conflitto, che riportano opinioni politiche di tutti i tipi, il che rende questo libro assolutamente obiettivo.

C’è solo una cosa che manca in questo libro: l’ostentata indifferenza verso ogni specifico destino umano, che viene invece spesso utilizzata dalla propaganda di entrambe le parti.

Le testimonianze al centro

Al centro di ogni intervista ci sono testimonianze, a volte terribili, con perdite assolutamente inimmaginabili. Le testimonianze da parte ucraina sono permeate da una domanda: «Perché farci questo? Perché ci avete fatto tutto questo?”. L’odio generato da questa domanda è comprensibile, ma esso devasta a tal punto la persona da non lasciare spazio per vivere, brucia tutto, fino al vuoto.

La dimensione atemporale, così spesso ricorre nel libro, è la caratteristica di questo stato. Le terribili perdite delle persone care provocano un dolore devastante: «Solo che io non ho più nessun altro da poter amare. In me non c’è amore, neppure una goccia. Non c’è neanche odio, quello che forse sorprende di più. Solo una grande stanchezza”. Come in ogni guerra, un’altra domanda importante suona come un ritornello: cos’è l’uomo? Una bestia o colui che, anche nelle circostanze più terribili, rimane se stesso, rimane umano? La guerra disumanizza. Sembra banale, ma a contatto con il dolore di una persona che soffre per la perdita dei propri cari, della sua casa, del suo modo di vivere, non è più una banalità rivestita di ragionamenti astratti sul bene e sul male, è una realtà concreta in cui il desiderio di preservare l’umanità in se stessi, sullo sfondo della disumanizzazione, supera tutti i desideri possibili. «La cosa più tremenda è l’uomo. Era una persona viva, ma aveva gli occhi morti. Ho avuto tantissima paura, ma poi ho, non tanto capito, quanto, sentito che, se aveva gli occhi morti, voleva dire che era morto dentro. Non aveva quindi più né fede, né amore. “Quindi non avrebbe vinto mai”, dice Tatyana nel quarto capitolo. E continua: «Io non provo odio. Non auguro a nessuno di vivere quello che abbiamo vissuto noi. Sono cose che nessuno deve provare. Sai cos’è che mai ha insegnano la guerra? Che nelle situazioni più disperate, nelle situazioni in cui non hai controllo su niente, è più facile sopravvivere se c’è qualcuno di cui prendersi cura: se è un bambino, giocaci; se è un animale, carezzalo; se è un vecchio, chiedigli come ha vissuto, gli anziani amano parlare della loro gioventù, sorridono subito; se è un giardino, aiuta gli alberi a fiorire. Invece l’odio invece non fa che aumentare il dolore. L’insensatezza di questa guerra, in cui i protagonisti, i soldati russi, sono infettati dalla propaganda e che, in ciò che sta accadendo, stanno cercando di trovare conferme sul fatto che hanno ragione, e si scontrano con la vita di persone semplici, una vita pacifica, in cui non esiste il concetto di guerra, ma solo “persone che vivevano nelle loro case e amavano i loro bambini, i loro cani, la loro terra. Amavano…”».

Cominciare a vedere i nemici come persone

Come nell’episodio Men Against Fire, della terza stagione di Black Mirror, quando all’improvviso l’ottica tattica dei militari crolla e finalmente iniziano a vedere i loro nemici come persone e non come scarafaggi. Dov’è il limite della caduta umana e il culmine della misericordia?

In un’altra intervista, la protagonista, ferita dai militari russi e da loro salvata, dice: «Mi sono fermata a pensare che quello che abbiamo vissuto è lo stesso che vivono tutti quelli che finiscono prima nel tritacarne della guerra e poi nella trappola dell’odio innescato dalla guerra. C’è molto di sorprendente nei singoli dettagli della mia storia. Ma nel complesso la storia non è riferita a me, ma a tutti gli esseri umani.

Ce ne sono di quelli che la guerra trasforma presto in animali. Ne ho visti diversi: non appena gli mettono un’arma in mano, perdono ogni tratto d’umanità. Perdono anche la coscienza e la compassione. L’ho ben visto. Succede con incredibile rapidità. Per altri non è così. Altri resistono. Sono quelli che … non si arrogano, se così si può dire, il diritto della forza, avere un’arma in mano non li spinge ad annientare subito tutti e tutto intorno a sé. Capisce cosa intendo? È un livello superiore di misericordia, non per qualcuno in concreto, ma solo… un atteggiamento di premura nei confronti degli altri, che dovrebbe essere innato in tutti noi, solo in quanto esseri umani. Ma alcuni lo perdono molto presto. E si disumanizzano. Ed è terribile. Ma ho visto anche altro…”. Ferita gravemente, mentre si trova in un trasporto di evacuazione, chiede a coloro che sono contemporaneamente suoi assassini e salvatori: «Quando ho sentito che i soldati russi erano venuti a liberarci sono rimasta esterrefatta, proprio sul piano umano: liberarci da chi? Noi che, se una cosa abbiamo conquistato, è la libertà? Noi tutti vivevamo, amavamo, parlavamo nella lingua in cui avevamo voglia di parlare. Io parlo russo da quando sono nata: e allora?

Kyev, balli per la Notte di mezza estate (AP Photo/Efrem Lukatsky/LaPresse)

E ora potevo morire per dissanguamento. «”Il nostro esercito”, ha detto il dottore, “vi difende”. Io non ho resistito e ho chiesto: “Da chi ci difende?” Lui si è contratto tutto e si è allontanato».

Irina, sopravvissuta alla tragedia di Bucha, racconta questo particolare, che rivela l’assoluta follia di questa guerra. Un soldato russo chiede come raggiungere una certa strada e gli spiegano che deve passare per via Shevchenko.

«Lui ha spalancato la bocca. “Ma come”, dice, via Shevchenko? Ma se sono io Shevchenko! E che, allora, i miei antenati erano nazisti?»

Quei soldati fuori di testa

In un altro episodio, Irina parla dello stato mentalmente distorto dell’esercito russo che ha fermato l’auto su cui viaggiava:

«Buongiorno. E io sono in preda al terrore. “Salve”, si stacca un suono da me, come per conto proprio. E quello a un tratto: “Si metta il cappello, così prende il freddo”. All’inizio non potevo credere alle mie orecchie. Aveva un viso bianco, molto lineare e occhi di un azzurro profondo che non esprimevano nulla, ma vedevano tutto. Già non era più interessato a me, e sono andati a controllare il bagagliaio. Ma io li ascoltavo già come in apnea, perché nel punto da cui si era allontanato, cioè esattamente dietro di lui, c’erano due cadaveri. Due bambini piccoli, uno in un sacco coprigambe, ancora un neonato, l’altro un po’ più grande. Tutti e due morti. A un passo da loro una macchina esplosa. E poco più avanti un ragazzo sui quindici anni in bicicletta, si era avvolto in un lenzuolo bianco, e pedalava così, per non farsi uccidere. Ma lo avevano ucciso. Era lì disteso su un fianco, e dietro di lui il lenzuolo bianco, come un manto. Tutto era nascosto dalla schiena del soldato che mi aveva consigliato di mettermi il cappello per non prendere un’infreddatura: si rende conto? Che cosa provava? Ma era poi in grado di provare qualcosa?».

Non siamo fatti per la guerra

La psiche umana non è creata per la guerra; resiste, cerca di recidere l’orrore di ciò che sta accadendo, di spostarlo. La devastazione e l’alienazione da se stessi è uno stato in cui è impossibile, impossibile sopportare ciò che vedi.

«Mentre uscivamo da Bucha», continua Irina, «c’erano cadaveri per le strade, macchine con conducenti morti al volante, persone uccise nei giardini delle loro case. Avevo visto tuttu questo senza piangere. Ho pianto per la prima volta quando ho visto questi bambini piccoli prima nascosti dalla schiena del soldato. Era stato lui a ucciderli? Ad ogni modo non li aveva neppure coperti, li ignorava completamente. Mi aveva detto con tale calma del cappello sapendo che dietro di lui c’erano quei bambini morti, uccisi dal suo paese, forse da lui stesso. Ma come potrà continuare a vivere dopo di questo?

Sa, non voglio che lui, che quelli che ci hanno fatto questo, provino quello che abbiamo provato noi. No, non voglio comunque che tocchi anche a loro. Ma voglio che capiscano cosa hanno fatto. E lo riconoscano. E questa sarà già una punizione».

La guerra, come una macchina spietata distrugge e paralizza ogni cosa, in modo ineluttabile. Questa è un’altra parola che compare nelle interviste. Essa schiaccia la persona, così che a volte non riesce a respirare e muoversi, non riesce ad essere consapevole di se stessa, della natura dei suoi pensieri e delle sue azioni. «Esiste la parola ineluttabilità. Quel rombo (di carri armati, di mezzi militari che si avvicinano) era l’ineluttabilità”. E in un’altra intervista: “E a quel punto mi si materializza in testa la parola: ineluttabilità. Mi pulsa dentro, anche se nessuno l’ha pronunciata. Comincio ad avere paura, ormai voglio andarmene. Penso — non per niente scappavano tutti».

Inga, Ruslan e gli altri

Inga di Mariupol, cui la guerra ha portato via il figlio e il marito, dice: «Non ho bisogno di niente. In nessun senso. Sa, l’odio è l’unica cosa che ancora almeno in parte sento. E null’ altro. Come se non ci fossi. Ma io ci sono: cammino, mi muovo, guardo. Solo non capisco che senso abbia. Lei mi può spiegare che senso ha?»

Ruslan, sopravvissuto alla tragedia di Mariupol, dice: « “Il pacifico mondo russo” che aspettavamo. Nel quale credevamo – credevamo in voi, in Putin. Che voi sareste venuti da noi, e avremmo cominciato a vivere in modo nuovo. Questo ci aspettavamo. E cosa abbiamo ricevuto. Cadaveri, fango, distruzione e odio: ecco cosa ci ha portato il vostro “pacifico mondo russo».

Nella sofferenza di ciò che si è vissuto crollano tutte le immagini ideologiche e allora appaiono una trasparenza e un’onestà particolari. Anche l’innegabile situazione in cui la Russia è l’aggressore e l’Ucraina la vittima viene oscurata dalle nuove vittime durante i combattimenti, quando i combattenti utilizzano la popolazione civile non evacuata come scudo umano. Anche su questo ci sono testimonianze nel libro.

Danila di Mariupol, che ha perso una gamba quando una bomba ha colpito l’appartamento dove si nascondeva con la madre e la sorella minore, dice: “Ci è solo toccato di essere la città contro cui avrebbe dovuto incepparsi l’invasione. Ci hanno sacrificati. Non hanno avuto compassione di noi. Non ce ne siamo andati ed entrambe le parti ci hanno usato per combattere. Non ce ne siamo andati e hanno preso a manovrarci sia qua che di là. Non eravamo persone, capisci, ma fattori della guerra, pedine in un gioco. Con cui hanno pagato per far rallentare la guerra, è questo il destino che ci è toccato. È una cosa che capita, immagino, è la guerra. Sai, se qualcuno è passato attraverso l’inferno per il quale siamo passati noi, nulla gli può importare di meno che chi è al governo. Noi come città, come persone. Non so se la gente potrà avere le forze per vivere ancora quest’inferno se dovessero attaccare Mariupol’ per riconquistarla.

Forse si. Gli uomini possono tollerare qualsiasi cosa, lo so. Ma adesso l’unica cosa importante è che smettano di sparare. Per dare alla gente la possibilità di vivere un po’ senza paura. Almeno per un po’, per un pochino. Ma io non ci torno (a Mariupol), sia che sia russa, ucraina o cos’altro ancora. Prima, semplicemente, era la mia città, adesso no».

Lo stato naturale dell’uomo è uno stato di pace,
non di guerra.

Zhenya di Kupyansk: «Voglio solo che la smettano di sparare. Voglio vivere, capisci? Abbiamo avuto una vita difficile, abbiamo sempre dovuto lottare per sopravvivere, per oggi copeca, lavorando dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina. Negli anni ’90 non c’era niente da mangiare, te lo ricorderai anche tu.Solo una decina di anni fa tutto ha cominciato a sistemarsi, solo allora sono riuscito a considerami un uomo: comprato il televisore, ho cambiato  la macchina. Non ci serviva niente, sai? Avevamo tutto quello che ci serve, capisci?

Adesso vanno dicendo che tutto dipende dalla lingua, per questo c’è stata la guerra, ma posso dirtelo con certezza: da noi chi voleva parlare in russo. C’erano singoli elementi che agitavano in questione, ma al popolo non arrivava proprio. La gente voleva vivere, semplicemente vivere, capisci?»

La fatica dell’esser solidali

Un capitolo, il più sorprendente, riguarda i rifugiati ucraini in Italia. Katerina Gordeeva è venuta a trovare la sua amica Paola in Campania, dove lei ospita i rifugiati nella sua casa. Paola ha chiesto a Katerina di parlare con loro. Katerina è d’accordo e chiede come stanno, come si trovano.

«Piangono, dice Paola. Piangiamo tutti tutto il tempo. È una grande prova, veramente. Ho rischiato di divorziare da mio marito per questa situazione. È stato molto pesante. “Cosa esattamente?”  “Essere solidali. Non nel senso di appendere la bandiera ucraina fuori alla finestra. Ma oggi giorno. Vivono da noi ogni giorno. Capisci di cosa parlo?»

Mi sembra di capire.

«“Ti rendi conto, non gli piace la mozzarella”, dice Paola, “e neppure la pasta gli piace niente. Del tutto un’altra mentalità. Non ci capiamo. Ti rendi conto, sono qui, completamente soli, in un mondo che non li capisce, ma tutti sono pronti alla compassione.

All’inizio della vostra guerra, tutti portavano cose facevano raccolte. Non avevamo così tanti profughi come nell’Europa dell’Est, in Polonia o nei paesi baltici. Arrivare da noi è comunque più complicato. Ma loro ci sono arrivati. Avresti dovuto vedere la sorpresa che c’è stata qui: alcuni sono arrivati con macchine di lusso, c’era chi era ben vestito. Non so cosa si aspettasse la gente, che sarebbero arrivati coperti di stracci, sporchi, pieni di eczemi, eh, Katerina?…”

“…Non starò a chiederti perché da voi in Russia nessuno protesta…”

“Grazie”.

“Ma non posso credere, checché ne scrivano i nostri giornali, che tutti quelli che vivono in Russia sono a favore della guerra”.

“Certo, non è così”.

“Com’è allora che le cose si sono messe così?”

“E quello che mi chiedo ogni giorno.”»

Odessa, pupazzi sul luogo dove sono morti alcuni bambini

Profugo, una vita da rifare

La difficoltà per un rifugiato è che deve ricostruire velocemente tutta la sua vita e le sue abitudini. Ecco cosa hanno detto le donne a Katerina:

“Provi a capire: non fanno che venire da noi questi italiani, ci dicono: imparate la lingua, andate a lavorare. Ci hanno portato anche a una sorta di tour illustrativo delle professioni locali. Ma io non voglio fare la fornaia! Non voglio impastare le loro pagnotte, non voglio parlare la loro lingua, capisce? Ma loro si offendono. I volontari ci chiamano, ci dicono che non è gentile. Bene, noi allora non siamo gentili.”

Alla fine Paola ringrazia Katerina e dice parole molto importanti, che credo risuoneranno in tanti italiani colpiti da questa guerra: «“Grazie, grazie, tantissime, Katerina. Tutto questo noi certo non possiamo capirlo. Ho visto come con te le ragazze erano se stesse, autentiche. Quanto avete pianto. Con me non piangono, per loro sono un’estranea. Tu invece il contrario esatto, per quanto strano, dovresti essere una nemica.

Sai”, dice Paola e ferma la macchina. “Adesso ho capito che se si è aggrediti, questo non significa automaticamente che si è buoni. Non lo dico a proposito di nessuna di voi in concreto. È solo un’osservazione generale”. “Sono contenta di poterlo dire almeno a te.

C’è poi anche un altro problema: tutto quello che possiamo davvero dare alle persone che sono riuscite miracolosamente a fuggire in Ucraina è tempo e pazienza. All’inizio della guerra, mi sembrava che fosse la cosa più facile, che ne abbiamo tutti  in abbondanza e non potranno mai finire. Ma ora vedo che sia l’uno che l’altra si avvicinano alla fine. E la guerra invece no”.

Persone diverse in circostanze diverse

Il libro contiene interviste con persone diverse, in circostanze completamente diverse, sia in Russia che in Ucraina. Tutte queste interviste hanno una parola in comune: dolore. Il dolore che la guerra porta a tutti. Un dolore che può generare odio. Ma il libro non riguarda il moltiplicarsi dell’odio, ma dell’amore. Amore per l’uomo. Amore, l’unica parola che salva non solo dall’odio, ma anche dall’atemporalità, dalla disperazione, dalla distruzione, dall’impotenza, dall’ineluttabilità.

Nell’ultimo capitolo l’autrice va al cimitero e dialogo con la sua nonna defunta, sopravvissuta agli orrori della Seconda Guerra Mondiale: «“Nonnina, com’ è potuta succedere una cosa del genere? E perché? Come sono contenta che tu tutto questo non lo vedi, nonna.

Al chiosco della fermata fuori dal cimitero compro dell’acqua, mi lavo le scarpe da ginnastica, la mano, ma lo sporco non si toglie. È un fango penetrante, s’infila sotto le unghie, nei vestiti, lo ritrovo anche nello zaino.

Piango, mi arrabbio. Non so dove andare o cosa fare. Cazzo, non so come vivere. Come sopravvivere a quest’odio che avanza da tutte le parti, come sommergerlo nell’ amore.

Ma quale amore, al diavolo, quale amore. Di che parlo? Qua c’è la guerra.

La guerra, nonna! Ti rendi conto? Da noi c’è la guerra”».

Katerina ricorda le parole di una canzone che sua nonna le cantava da bambina, ma questa canzone esiste in diverse versioni. In una di essi, più moderna e popolare, non ci sono parole sul dolore: «“Porta via il mio dolore*, rapido torrente… E la nonna aggiungeva: “Racconta al fiume il tuo dolore, lui lo porterà via con sé”.

Io alla nonna credevo, e lo facevo. Ma adesso mi allontano dal molo. Il dolore che non ha trovato posto nella canzone, non avrebbe posto neanche nel fiume».

*Questo verso (Unesi ty moё gore) è anche il titolo russo originale del libro di Katerina Gordeeva

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