Regimi

Iran, un presidente moderato solo a parole

Per tre esperti sentiti da VITA, il messaggio chiave delle elezioni di ieri è che la maggioranza degli iraniani le ha boicottate. Il nuovo presidente Masoud Pezeshkian farà di tutto per nascondere questo dato incontestabile e per far rivivere il mito della riforma del 1997, quando era stato eletto a gran maggioranza Mohammad Khatami. Allora fu un fiasco e oggi, la società civile iraniana non si illude che possa andare diversamente

di Paolo Manzo

Il cardiochirurgo 69enne Masoud Pezeshkian, un «indipendente» (nalle foto sopra di AP Photo/Vahid Salemi/LaPresse), ha vinto ieri il ballottaggio delle presidenziali in Iran. Secondo il conteggio della dittatura avrebbe ottenuto oltre 16 milioni di voti, tre in più di quelli dello sfidante Said Jalili, candidato del «Fronte della Stabilità della Rivoluzione Islamica».

Sempre secondo la teocrazia di Teheran, la partecipazione elettorale sarebbe stata del 49,8%. L’opposizione invece ha denunciato la scarsa affluenza, limitata ad un modesto 10%. Se Jalil è stato definito dai media occidentali «ultraconservatore», a Pezeshkian è stato dato del «riformista» e del «moderato». Ma è veramente cosí?

Un presidente scelto da Khamenei

A detta di Mahmood Amiry-Moghaddam, direttore della ong Iran Human Rights «se Pezeshkian è diventato presidente è perché la Guida Suprema Ali Khamenei lo considerava la scelta migliore per proseguire la sua politica interna ed estera, che non cambieranno, a differenza forse della retorica e del tono verso l’Occidente». Il principale responsabile delle decisioni a Teheran insomma rimane la Guida Suprema. 

«È lui che prende tutte le decisioni fondamentali e le politiche strategiche del regime. Il presidente si limita a implementare questi diktat», spiega Jason Brodsky, ricercatore presso il Middle East Institute, chiarendo che quanto accaduto ieri a Teheran «non è una dimostrazione democratica di potere popolare che produrrà un governo moderato o riformista. È solo l’85enne Khamenei che ha orchestrato un risultato per preservare il regime e dargli un po’ di respiro mentre intraprende il processo della sua successione». 

Numeri sulla affluenza manipolati

Per Brodsky come per Hadi Ghaemi, direttore esecutivo del Center for Human Rights in Iran (Chri) risulta difficile comprendere come i media occidentali prendano per buone le narrazioni di Teheran, un regime che non ha paura di sparare sul proprio popolo, figurarsi di gonfiare le statistiche sulla partecipazione. «Il più grande errore in questo momento è usare il termine riformista per Pezeshkian. In realtà non c’è nessuno, né lui né nessuno della sua fazione politica (legata al secondo Movimento Khordad che appoggiò dal 1997 al 2005 l’ex presidente Mohammad Khatami, ndr) che sia riformista»  precisa Ghaemi.  

L’accusa che viene loro rivolta è che non abbiano mai avviato alcuna riforma, nonostante esistano politicamente dal 1997. «Va anche ricordato – aggiunge Ghaemi – che Pezeshkian ha dichiarato la sua fedeltà alla Guida Suprema, alle Guardie rivoluzionarie e a tutto ciò che esse rappresentano, difendendo anche la loro sanguinosa repressione delle donne e della società civile durante e dopo la rivolta del 2022». 

Per questo la società civile iraniana adesso non si aspetta grandi cambiamenti. A detta di Amiry-Moghaddam, la ragione principale per cui Khamenei ha permesso a Pezeshkian di diventare presidente è che «sa perfettamente che la prossima volta che ci saranno delle proteste in Iran potrebbero far cadere il regime. Per questo il governo di Teheran ha puntato su un presunto moderato». Pezeshkian insomma per questi attivisti è stato sostenuto dal regime per ingannare i giovani iraniani e la comunità internazionale e fare credere loro che in Iran sia avvenuta una svolta. «Se negozierà l’accordo nucleare, lo farà solo per attenuare le sanzioni economiche e le pressioni esterne ma non vedo nessun cambiamento in vista per il popolo iraniano nella sua vita quotidiana, né un attenuarsi della repressione», spiega Ghaemi a VITA.

La Nobel per la Pace Narges Mohammadi (Credits: CHRI)

I riformisti hanno boicottato il voto in Iran

A farne le spese sono soprattutto le donne «che da 45 anni subiscono un apartheid di genere feroce dal regime di Teheran» denuncia Amiry-Moghaddam. Tutte le donne che hanno guidato le proteste nel 2022 sono infatti in prigione e hanno boicottato queste elezioni. «Gran parte del movimento riformista vero – persone con cui abbiamo legami e che rappresentiamo (giornalisti, accademici, sindacalisti) ha boicottato le elezioni, dimostrando che la maggioranza del popolo iraniano non vuole questo regime, non partecipa alle sue elezioni e desidera che venga smantellato. Questo è stato il messaggio più significativo di questo voto che determinerà il futuro dell’Iran, ma i media occidentali sono pigri e lo hanno ignorato», accusa Ghaemi. 

Per Amiry-Moghaddam, che insegna anche all’università di Oslo e che è un luminare nel settore della neuroscienza, «i media internazionali probabilmente non conoscono bene la situazione e, forse, siccome l’Iran è più bravo nelle pubbliche relazioni rispetto a Pyongyang, quando parlano di dittature teocratiche pensano solo ai talebani, o alla Corea del Nord». E invece, purtroppo, anche gli Ayatollah danno il loro contributo alla violazione dei diritti umani fondamentali e alla repressione di chi si oppone.

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