Letture

Un libro per incontrare lo sguardo di Alex sulla pace

Alla vigilia del ventinovesimo anniversario della morte di Alex Langer un libro ripropone opportunamente scritti e relazioni dell'attivista ambientalista e “facitore di pace”, come amava definirsi. L'iniziativa è del Mean che ha ripreso il suo progetto di Corpi civili di pace europei rilanciandola in Italia e in Europa

di Riccardo Bonacina

Sono passati ventinove anni da quando Alexander Langer mori la sera di lunedì 3 luglio 1995, salutando il mondo da un albero di albicocco, forse perché sfinito da un impegno che durava da almeno trent’anni, forse perché sfiancato dal suo procedere contro ogni banalità e schema, forse perché troppo solo. Una vita breve, ha vissuto meno di 50 anni (49 per l’esattezza), durante la quale ha tuttavia attraversato in modo originale, libero, coraggioso la seconda metà del Novecento. Impressiona la sostanza profetica dei suoi scritti e dei suoi interventi su cui val sempre la pena ritornare, per capire il buco nero che ha lasciato la sua scomparsa nella cultura italiana in generale e, in particolare, in una sinistra che ha via via smarrito se stessa e le stesse ragioni della storia. 

Per questo, il fatto che proprio alla vigilia di questo anniversario esca un libro intitolato “Lo sguardo di Alex sulla pace”, scritto a più mani (Luca Cirese, Massimo De Maio, Gian Carlo Fedeli, Giovanna Grenga, Pinuccia Montanari, Angelo Moretti, Marianella Sclavi e Simone Zoppellaro), è un gran regalo promosso e proposto dal Movimento europeo di Azione Nonviolenta (Mean), un’occasione per ritornare su alcuni suoi testi opportunamente riproposti nel libro.

Alcuni articoli, scritti dopo le sue missioni da parlamentare europeo, sono ampiamente riportati nel libro, come pure le sue riflessioni sui processi di pace e sulla conversione ecologica, l’impasse della diplomazia di fronte alla questione cecena e considerazioni sul fallimento ultradecennale della diplomazia europea nel Caucaso e nel rapportarsi ai conflitti nati dalla dissoluzione dell’Unione sovietica. Le sue analisi restano attuali perché lui riconosce e denuncia le trame della violenza ostinata come della politica ottusa che si perpetua e riproduce, mentre impedisce ogni attraversamento di ponti o scavalcamento di muri. Alex scriveva in Minima personalia, «Sul mio ponte si transita in entrambe le direzioni, e sono contento di poter contribuire a far circolare idee e persone».

La sua straordinaria intuizione dei Corpi Civili di Pace, che proprio il Mean in questi anni a rilanciato in Italia ed Europa, era ispirata a creare le condizioni affinché gli abitanti delle zone di crisi, e in pericolo di guerra, potessero diventare i protagonisti di un processo di rigenerazione sociale, economica, civile del loro territorio e di gestione creativa delle divergenze.

Come spiegano gli autori alla vigilia dell’ennesima importante missione a Kyiv per promuovere l’istituzione dei Corpi Civili di Pace europei: «È un’urgenza quasi fisica, epidermica, che ci spinge – noi in quanto piccolo gruppo senza etichette o ruoli – a ritornare a leggere Langer alla vigilia di un viaggio a Kyiv che per alcuni di noi è un ritorno, per altri l’approdo di un percorso di solidarietà concreta contro le vittime della più spaventosa guerra (non l’unica però) che sta segnando la nostra Europa all’alba di questo millennio. Al pacifismo “tifoso” e “gridato”, scriverà Langer, “preferisco il pacifismo concreto, con dei partner concreti. Credo che serva di più delle opzioni semplicistiche, buone per accontentare i tifosi, ma sterili rispetto alla realtà: una pratica di pace, dunque, che si nutra di progetti concreti e buone pratiche, piuttosto che di schieramenti e azioni di pura testimonianza, e che dunque fosse capace di mettersi in ascolto di chi quelle situazioni le viveva in prima persona e attivarsi concretamente per aiutare le vittime della guerra, misurandosi con la riduzione del danno. E dunque, anche solo chi riesce a mettere insieme un profugo serbo con un profugo croato o bosniaco fa già una gran cosa secondo me”».

Sottolinea Angelo Moretti che di Mean è animatore e portavoce: «Quella ricerca di “nuovo pacifismo” emerge ancora con prepotenza nel terribile scenario ucraino. Un potente invasore, dotato di armi nucleari, aggredisce un popolo libero e indipendente all’interno di confini riconosciuti dalla comunità internazionale. Non solo, la Federazione Russa dispone del potere di veto al Consiglio di sicurezza ONU e nonostante le condanne pervenute, non riconosce alcuna sua responsabilità dell’aggressione, che con chiara ostentazione manipolatoria chiama “operazione speciale”, al pari di un’operazione di polizia interna. Marce, digiuni, petizioni, condanna degli armamenti, cosa dicono di concreto alla resistenza ucraina, alla popolazione civile che non vuol cedere la propria terra all’usurpatore della loro esistenza? Cosa dicono i nostri appelli ad anziani, donne e bambini che hanno visto le violenze di Bucha, Irpini, Mariupo? Questi nuovi europei cosa si aspettano dal pacifismo oggi?. Rileggere Langer a Kyiv interroga non poco. Il disarmo degli aggrediti non è uguale a quello degli aggressori. Il digiuno dei pacifisti non sazia la fame di giustizia degli oppressi».


Nel 1992 di fronte alla guerra in Bosnia, Langer scrive per spiegare la differenza tra pacifismo tifoso, di testimonianza e quello concreto: “Di fronte a questa situazione, sentiamo drammaticamente insufficiente un pacifismo, un’azione per la pace, di sola testimonianza o rivendicazione. (…) Ma altrettanto semplicistica mi appare la posi- zione opposta, quella che chiamerei di “pacifismo dogmatico”. Mi sono molto meravigliato come alcune delle persone che sono andate a Sarajevo con i “beati costruttori di pace”, nel dicembre scorso, siano tornate da quella esperienza estrema e singolare, di grandissimo significato umano, con lo stesso discorso aprioristico che facevano prima, e con lo stesso atteggiamento solo declamatorio sul valore universale della pace e dei diritti umani. A differenza delle testimonianze assai veraci e problematiche di alcuni partecipanti (come quelle dei vescovi don Tonino Bello e mons. Bettazzi), altri reduci da Sarajevo non apparivano intaccati più di tanto dal fatto che i bosniaci assediati chiedono disperatamente un aiuto contro gli aggressori assedianti (ed armi per difendersi da sé se l’aiuto esterno non viene). Una sanguinosa epura- zione etnica a suon di massacri, stupri, deportazioni e devastazioni va avanti a tappeto, la popolazione di per sé largamente interetnica viene costretta a schierarsi con una parte contro l’altra, un baratro profondo rischia di riaprirsi tra est e ovest, tra cristiani e musulmani, tra europei da difendere ed europei che possono essere macellati tranquillamente. Tutto questo non può trovare come unica risposta l’invocazione astratta della non-violenza”.

Il pacifismo concreto

Da qui la sua proposta di un “pacifismo concreto”, quello della convivenza tra diversi, quello dei gruppi misti, come scrive nel novembre del 1992, la partita decisiva è costruire “attitudini alla convivenza”. Occorre, scrive Alex: «un atteggiamento spirituale e di capacità di prevenzione deve avere a che fare non tanto e non semplicemente col rifiuto dell’azione militare, ma molto di più con la capacità di costruire attitudini alla convivenza. Guardate quale potenziale di odio può sviluppare se – com’è successo in questi giorni da noi in Europa – dei ragazzi di diciotto, venti, venticinque anni decidono di partire per incendiare una baracca di immigrati. È una questione veramente cruciale, più di qualsiasi problema di armamenti; poi è verissimo che ci sono gli armamenti, che c’è chi li produce, chi li deve vendere, per venderli bisogna che vengano usati, ma la disponibilità oggi a usare violenza è il primo punto da individuare in un lavoro di pace».

Lo sguardo di Alex sulla pace” propone anche due scritti a mio parere imperdibili, la lettera a San Cristoforo del 1990 e “A proposito di Giona”, appunti da una conferenza tenuta su invito del vescovo di Bolzano nel maggio 1995 in cui si sente la stanchezza di Alex, quella che lo porterà a lasciare il mondo da un albero di albicocche lasciando scritto: «I pesi mi sono divenuti insostenibili… «Venite a me voi che siete stanchi ed oberati” (Mt, 11,28)… Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto».

«È un tempo, questo, in cui non passa giorno senza che si getti qualche pietra sull’impegno pubblico, specie politico. Troppa è la corruzione, la falsità, il trionfo dell’apparenza e della volgarità. Troppo accreditati i finti rinnovamenti, moralismi abusivi, demagogia e semplicismo. Troppo evidente la carica di eversione e deviazione che caratterizza mansioni che dovevano essere di estrema responsabilità. Troppo tracotanti si riaffacciano durezza sociale, logica del più forte, competizione selvaggia.

Davvero non si sa dove trovare le risorse spirituali per cimentarsi su un terreno sempre più impervio. Non sarà magari più saggio abbandonare un campo talmente intossicato da non poter sperare in alcuna bonifica, e coltivare – semmai – altrove nuovi appezzamenti, per modesti che siano?

Bisogna provare a rileggere il breve libro di Giona. Quanta distanza dai tanti profeti auto-investiti! Si capisce che Giona non corra per alcuna “nomination”, ma anzi cerchi di sottrarsi. Si ha fame di verità, di profeti il cui messaggio sia più importante del latore: la persona del “profeta”, gli interessi del “profeta”, l’acquiescenza a gusti facili ed alla demagogia, rendono spesso difficile percepire i messaggi importanti e veri.

Si ha una acuta sensazione di non-verità di fronte ai messaggi gridati dai mass-media, dalla competizione politica, dalla pubblicità, dalla convegnistica, dallo stesso sdegno di chi proclama ad alta voce la propria opposizione ed alternatività. E non si riesce a dar credito a ricostruzioni, teoremi, ideologie che tutto spiegano, tutto inquadrano, tutto giustificano, in tutto fanno tornare i conti. C’è sete di messaggi semplici e veri: verificati, cioè, dall’esperienza vissuta, non gonfiati o aggiustati per colpire meglio l’attenzione o la curiosità».

Abbiamo davvero un grande bisogno dello sguardo di Alex sulla pace, sulla politica, sull’amore all’esperienza concreta di convivenza tra diversi, di amicizia. E questo libro rende possibile incrociare ancora una volta il suo sguardo e le sue parole.

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