Convention Cgm
Anticorpi per evitare che un evento diventi rito
Pensieri a margine dell'incontro di Bologna dove si sono date appuntamento 350 cooperative e imprese sociali aderenti al Consorzio Gino Mattarelli
Con il termine “eventi” si fa sempre più spesso riferimento a incontri di natura culturale e ricreativa che assumono diverse fattispecie: festival soprattutto, ma anche seminari, presentazioni, workshop, ecc. Iniziative che ormai costellano sempre di più il calendario – o forse, per restare in tema, sarebbe meglio dire il palinsesto – di quel mondo, dai confini sempre più labili, che mette al centro l’innovazione e l’imprenditoria sociale. La convention del Consorzio nazionale Cgm è forse l’antesignana di questa “eventologia”: giunta alla quindicesima edizione, si sta tenendo in questi giorni a Bologna con oltre 350 partecipanti da tutta Italia. Si tratta quindi di una buona occasione per tastare il polso della situazione non solo rispetto ai contenuti, ma anche rispetto al format.
Questi eventi funzionano? E soprattutto hanno ancora senso? Domande non scontate considerando quel che è successo in questi ultimi anni – basti pensare all’effetto della pandemia sulla capacità e volontà di ritrovarsi in presenza – ma anche a quel che sta succedendo ora, ovvero una radicalizzazione del contesto da molteplici punti di vista: guerre, crisi economiche, disuguaglianze, conflitto sociale, ecc. In sintesi, e con un gioco di parole, si potrebbe dire che gli eventi sfidano gli eventi: fatti sempre più epocali sollecitano gli incontri ad avere più mordente sulla realtà, altrimenti il rischio è di generare una bolla di contenuti e di relazioni fine a stessa che nel caso trattasse di questioni “sociali” striderebbe ancora di più.
Ecco quindi alcune contromisure che si possono captare alla Convention Cgm per non finire fuori giri rispetto al reale trasformandosi in una mera ritualità. Il primo scegliere non tanto una “location” funzionale alle classiche esigenze di un evento ma piuttosto un contesto, anche con le sue disfunzionalità, dove poter fare un’esperienza immersiva rispetto ai fattori socio ambientali e politico culturali che caratterizzano qualsiasi attività umana in questa fase storica.
Ecco quindi che Bologna con la sua policy cittadina per l’economia sociale e lo spazio DumBO rigenerato per usi di natura collettiva ben rappresentano una nuova concezione di cosa la sede di un evento significhi in termini di senso.
La seconda contromisura consiste nel generare ridondanza di contenuti. Si tratta di una modalità per certi versi tipica del settore sociale e che anche in questo caso può generare disfunzionalità rispetto alla gestione dell’evento in sé perché implica riempire, al limite dell’intasamento, programmi e orari. I partecipanti alla convention sembrano però apprezzare, forse perché fare il pieno di contenuti consente di alimentare quell’approccio sistemico e non specialistico ai problemi che scaturiscono dagli eventi che ci circondano.
Infine, ma non per ultimo, le modalità di interazione che si sviluppano tra gli stakeholder degli eventi: partecipanti, relatori e organizzatori. L’impressione, guardando alla convention Cgm, è che nonostante il potenziamento dei format e delle figure di facilitazione prevalga una modalità di condivisione da dietro le quinte e di serendipità. Forse è anche una questione generazionale riconducibile a un evento che si porta dietro una cultura distintiva per cui la principale forma di feedback e condivisione è quella dei capannelli “multi-stakeholder” che spontaneamente si formano a margine dei lavori. In sintesi, vista da Bologna, anche l’eventologia dell’innovazione e dell’imprenditoria sociale sembra entrata in una fase di “adattamento” rispetto alle trasformazioni dei contesti. Chissà se sarà sufficiente per elaborare quelle “direzioni” in termini di strategia che intitolano questa edizione della convention e che appaiono sempre più necessarie e urgenti.
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