Welfare

Tavola rotonda. Le chance del non profit. Salvare il Welfare non è affare da santi

Questo è il momento dei mediatori. Di quelle forze che sanno raccordare i cocci in cui è ridotto il sistema (a cura di Riccardo Bonacina e Giuseppe Frangi).

di Riccardo Bonacina

Aldo Bonomi: Oggi in campo ci sono tre modelli di Welfare. Il primo modello è quello dei benestanti, che si proteggono con strumenti nuovi, dalle badanti alla domotica stile Beghelli. Il secondo modello è quello opposto, della bassa soglia: riguarda gli esclusi e che trova protezione solo nell?impegno del volontariato. In mezzo a questi due modelli sta la grande maggioranza degli italiani, la popolazione coinvolta dall?arretramento del servizio pubblico e dall?avanzamento delle strutture private. La questione cruciale, oggi, è per me quella di capire qual è il soggetto in grado di rimettere insieme i cocci del Welfare, i tre cocci, come abbiamo sintetizzato. Che è una questione più importante ancora che capire chi abbia ragione e quale sia il modello migliore. Insomma, dobbiamo cercare i grandi mediatori. Vita: Chi può accreditarsi sul campo in questo ruolo di grandi mediatori? Bonomi: Non sono certo i soggetti della politica, ma quelli della pre-politica. Provo a fare qualche esempio. Il sindacato pensionati, per esempio: non possono ridursi a sola corporazione in difesa di sé perché intercettano anche il bisogno dei figli, o dei nipoti, che non trovano lavoro o casa per sposarsi. Loro possono essere una risorsa culturale di interconnessione. Un secondo soggetto potenziale lo vedo in esperienze come Cgm o CdO, le grandi reti di imprese sociali, coloro che fanno outsourcing del Welfare. E poi sono trasversali a due cocci di cui abbiamo detto: quello della medietà e quello della bassa soglia. Un altro ?luogo? in cui i cocci si ricompongono è quello delle public utilities, le municipalizzate o le fondazioni. Johnny Dotti: Ovviamente, come soggetto interessato, mi piacerebbe capire di più del ruolo della cooperazione sociale. Bonomi: In genere quando si parla di cultura sociale si finisce sempre con il riferirsi a quelli che io chiamo ?i grandi santi?. O, se volete, ?allo spettacolo del volontariato?. Questo gratifica i sensi di colpa collettivi ma non aiuta a risolvere la questione di fondo del Welfare che finisce in pezzi. La cooperazione sociale invece è fuori da questa prospettiva. è un esercito di sapere diffuso, sul sociale e sul Welfare. L?aspetto interessante che è emerso chiaramente dalla ricerca fatta, è che l?approccio del singolo al mondo della cooperazione sociale avviene, nel 60% dei casi, per un meccanismo di casualità. Il lavoro viene scelto sulla base di criteri normali, non ci sono ?vocazioni?. Insomma, siamo di fronte a un approccio che è proprio opposto a quello della ?santità?. Questo facilita la funzione di mediazione: perché il soggetto non si è avvicinato a questo lavoro per per un presupposto culturale. Dotti: Quali sono invece quelli che frenano la crescita e il riconoscimento del ruolo? Bonomi: Dal punto di vista della società, c?è il vizio di non riconoscere il sapere sociale e di coprirsi la coscienza incensando i santi. Dal punto vista dell?organizzazione, invece, ho notato che i soggetti parlano tra di loro a livello delle comunità locali, cosa che invece non avviene a livello nazionale. Ci si divide per questioni di mercato: ognuno si limita a presidiare i propri spazi. Felice Scalvini: Quanto hai esposto, in prospettiva generale, conferma quanto sia urgente rimutualizzare il sistema economico. Il vecchio sistema di mutualizzazione che ha garantito il rapporto Stato-mercato ora non sta più in piedi. Occorre inventare nuove istituzioni, istituzioni embrionali e locali di una nuova mutualizzazione. Da questo punto di vista, credo che il disegno di legge sull?impresa sociale possa essere un passaggio decisivo. Costringerà tutti a usare uno strumento appropriato per le forme economiche. Oltretutto si tratta di uno strumento elastico in grado di intercettarle tutte, ma che però costringe tutti quelli che fanno l?economico a farlo in un certo modo. In secondo luogo, penso che per mutualizzare la società, la cooperazione sociale debba mutualizzarsi anche al suo interno. Che cosa intendo dire? Che deve affermare dentro il tessuto sociale la logica della cooperazione e non quella della concorrenza. Iniziando a dimostrare una logica di cooperazione innanzitutto tra organizzazioni. Sono molto favorevole a una logica in base alla quale i finanziamenti arrivano su progetti non targati da un?associazione, ma fatti insieme. Era questa la logica del sistema consortile. Deve cambiare anche la funzione della politica, ritenuta solo luogo della mediazione dentro l?economia: una logica distruttiva per le organizzazioni. Invece la politica può essere lo strumento dello sviluppo. Come questo può maturare? Attraverso la crescita dei forum locali del Terzo settore, che sono il modo di formare nuove istituzioni dentro il territorio. Oppure dalle fondazioni di erogazione, che possono creare una capacità di orientamento con il loro volume di incentivi economici e possono essere un cuneo che aiuti il rafforzamento di nuove forme istituzionali. Bonomi: Capisco la tua logica. Tu chiedi che la politica faccia leggi di accompagnamento, che i grandi erogatori la smettano con la logica compassionevole che induce solo competizione. Ma questa è l?innovazione dall?alto. Che deve unirsi alla spinta mutualistica dal basso, la quale se non matura sfocia e si s?impantana nel movimentismo. Per questo il problema è come si ci si possa sottrarre, in termini pratici, alla logica della società competitiva che produce i cocci. Dotti: Non basta avere più visione. Ci vuole anche più coraggio nel saltare il fosso. Avere il coraggio di lavorare insieme su progetti di eccellenza, far capire ai tanti bravi protagonisti del sociale che se le le sfide non hanno il mondo come orizzonte, alla fine muoiono. Ma viviamo in un periodo in cui ci tocca una fase di purgatorio, di mediazione, in cui con pazienza si costruiscono fatti destinati a restare. Coscienza del purgatorio significa che le identità siano più consapevoli dei propri limiti e quindi cerchino sempre di cooperare con gli altri. Luciano Balbo: Io credo che il problema sia quello della visibilità. Come dare visibilità al sapere sociale e trasformarlo in catalizzatore di consenso? Questo è il problema. Cgm, da questo punto di vista, parte con il piede giusto, perché la sua prospettiva è quella di una mutualizzazione del cittadino comune, quindi non interna al non profit. Il Paese ha bisogno di esperienze come queste. E si può essere fieri di quello che si sta facendo, accettando, nel contempo, il rischio di essere vagliati dagli altri. Quanto alla filantropia istituzionale, serve se produce competenza. Perché se crea solo dipendenza dal pubblico, alla fine rende sterili. Dobbiamo virare la mutualità compassionevole in una mutualità globale. Scalvini: Approvo l?idea di una mutualizzazione dei cittadini, cioè secondo logiche orizzontali del territorio. Ma non mutualizzi i cittadini se non sei aperto come organizzazione, se non comunichi con chi lavora nel tuo territorio. Per questo torno al tema delle istituzioni, che è il tema di chi ?sta al volante?. Del resto idee come la formula autoaggregante delle fondazioni di comunità hanno mostrato di funzionare. Balbo: Ma bisogna evitare gli errori commessi sino ad oggi: troppo spesso il non profit si è aggregato in modo corporativo. Se nuove istituzioni nascono c?è bisogno che scompaginino i vecchi metodi di lavoro. Il rischio è che la preoccupazione sia quella di governare la spartizione della torta anziché inventare proposte che attraggano fette più consistenti di quella torta, e che, naturalmente, la gestiscano meglio. Dotti: Eppure abbiamo un?evidenza economica grande. L?aggregato di Cgm è di 1 miliardo di euro, ma fa fatica a diventare strategicamente orientato. C?è il rischio di riprodurre network chiusi in cui c?è dentro tutto. Anche nel Terzo settore occorre cominciare a riconoscere la competenza altrui. Così si innescherà un dinamismo nuovo e positivo, a favore dei cittadini.

a cura di Riccardo Bonacina e Giuseppe Frangi


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