Malattia
Una danza scomposta con(tro) il tumore
Nel suo libro "Stelle solitarie", Cristina Marconi esplora l’emotività di una donna che vive il tumore del marito e quello di un’amica. Racconta la loro sofferenza, le loro strategie di resistenza, fino a scoprire che «il dolore vissuto insieme raramente è un pas de deux armonioso e coordinato. Più facile che si trasformi in una danza scomposta». La letteratura allora può servire a questo: a fare eco, a produrre risonanza
«Ci siamo ammalati». Da quando Luca, suo marito, aveva ricevuto la devastante diagnosi di tumore, Cristina ripeteva spessa questa frase. «La nostra famiglia si è ammalata», spiegava lanciando appelli alla gente, implorando consigli, suggerimenti, approfondimenti. Era stata la sua reazione più istintiva, un grido disperato mentre il mondo, così come lo conosceva, si sgretolava sotto i suoi occhi.
Ne parlava al plurale perché, sebbene fosse sana nel corpo, il suo spirito si è ammaccato. Come lo è quello di chiunque stia accanto a una persona che soffre e si trova costretto a guardare la malattia in faccia. Ci si ammala per procura, mentre rabbia, dolore, incertezze e smarrimento ti stanno alle calcagna. Si parla poco, troppo poco, del peso di questo ruolo. Ma la scrittrice e giornalista Cristina Marconi osa farlo, con delicatezza, nel suo ultimo libro, “Stelle solitarie”, pubblicato da Einaudi. Qui dà voce ai tormenti della protagonista, quarantenne, anch’essa chiamata Cristina, che in pochi mesi vede il tumore insediarsi nel corpo del marito e quattro mesi prima in quello dell’amica del cuore, Vera.
Lei vive e assorbe la loro sofferenza, osserva le loro strategie di resistenza. Testimone e protagonista al tempo stesso, si arrabatta alla ricerca di un modo per essere d’aiuto. Mentre tutto il resto retrocede a sfondo, inventa un lessico per consolarli. Indossa un’armatura e si fa scudo. Spalanca le braccia e crea un nido. Ma tutto questo movimento non sembra bastare mai. Anzi. «Mi ci è voluto un po’ di tempo prima di mettere a fuoco la semplice verità che ad ammalarmi non ero stata io, che le cellule malate non erano in comunione dei beni».
Mi ci è voluto un po’ di tempo prima di mettere a fuoco la semplice verità che ad ammalarmi non ero stata io, che le cellule malate non erano in comunione dei beni
Da “Stelle solitarie”
Luca glielo aveva fatto notare con rabbia. «Lui ha bisogno di costruirsi un suo modo di essere malato e tu non puoi farci niente», le aveva spiegato la sua amica Vera, mentore ed esperta di lungo corso, suo malgrado. Lo scrive anche Francesca Mannocchi, in un libro stupendo che è “Bianco è il colore del danno” (Einaudi): «Il sano, per quanto amore abbia, sarà sempre non malato rispetto al malato. E in un luogo oscuro, il malato non glielo perdona».
Cristina scoprirà da sola anche un’altra cosa: che «il dolore vissuto insieme raramente è un pas de deux armonioso e coordinato. Più facile che si trasformi in una danza scomposta, in cui si rischia di darsi molti colpi, volontari o no». Una danza fatta di tempi e ritmi diversi, di salite e discese che raramente procedono come rette parallele. Lo sperimenterà sulla sua pelle anche quando, finalmente, la malattia di Luca virerà verso il polo positivo: nonostante il tumore sia scomparso, suo marito non tornerà mai ad essere quello di prima.
Fuori le ferite si rimarginano, ma il dentro si sfarina. Anche questo, chi ha esperienza lo sa: il tempo non riparte mai uguale da dove si era fermato, come dopo un sortilegio, un brutto incantesimo. Uguale a prima non sarà più, per nessuno. «Mio marito era entrato in una dimensione diversa della gestione della malattia, più personale, da cui io ero esclusa. La seconda fase era iniziata: ora era l’anima che iniziava a stare male».
Un giorno, come ha scritto Joan Didion, ti siedi a tavola e la tua vita non è più la stessa. Chi sopravvive a un tumore non è un survived, participio passato, come chi è scampato a un incidente. E un survivor, un individuo che continua a convivere con quella “cosa” che rimane nel tempo nelle memorie. Stare al suo fianco, allora, rispettare con delicatezza le sue ammaccature, muoversi con cautela mentre si vorrebbe urlare al cielo tutta la gioia, è ancora più difficile.
Marconi lo racconta bene, e proprio questa sua lucidità nel guardare dritto nell’oscurità fa sentire meno solo chiunque si imbatta nelle sue pagine. «Scrivere di malattia, analizzare la propria anima in un momento difficile è una forma di militanza. Penso che aiuti ad allargare i confini di ciò di cui si parla, dell’esperienza umana condivisibile».
Vera e Cristina proveranno a superarli anche fisicamente, questi confini, volando a Houston insieme, in cerca di una cura. «Entrare nel paese e facile per la gente come noi. La malattia è un foglio di via, basta nominarla e questa citta tra cielo e terra ci apre le sue porte carica di promesse e di mirabilie scientifiche».
Il perché di questo viaggio lo racconta proprio Cristina: «Ero sposata al dolore, non mi sono ammalata io ma la nostra vita sí e a un certo punto ho avuto anche io bisogno di curarmi, sono andata a Houston perché volevo un posto irragionevole e lontano, volevo aiutare qualcuno che volesse farsi aiutare (Vera), avere il potere di muovere qualche filo, di rendere meno difficili le cose a un’altra persona cara, mostrare che avevo imparato qualcosa».
Foto di Hulki Okan Tabak su Unsplash
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