Emergenza carcere
Suicidi, ex direttore S.Vittore: «Ridurre il sovraffollamento subito»
Lo scorso weekend quattro detenuti si sono dati la morte. Dall’inizio dell’anno sono già 44. Per Luigi Pagano, che ha diretto per 16 anni il penitenziario milanese, «quattro suicidi in 24 ore negli istituti di pena non si erano mai visti». E aggiunge che bisogna cercare «di ridurre l’incidenza del sovraffollamento. È la politica penitenziaria che non va. Il legislatore non può pensare soltanto in termini repressivi: non serve a nulla e determina tutti i problemi che abbiamo sotto gli occhi»
Nelle carceri italiane sono stati quattro i detenuti che si sono tolti la vita lo scorso weekend, tra venerdì e sabato, ad Ariano Irpino, Biella, Sassari, Teramo. Salgono a 44 i suicidi negli istituti penitenziari, nei primi cinque mesi e mezzo del 2024: una media di quasi uno ogni tre giorni. Se si continua così, si superano i 70 suicidi dell’anno scorso e il numero record di 84 del 2022. «Il dramma dei suicidi in carcere sta diventando sistematico», dice Luigi Pagano, ex direttore di San Vittore per 16 anni e già vice-capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – Dap.
Pagano, cosa può dirci del dramma dei suicidi in carcere?
Da tre anni circa il numero dei suicidi tende ad aumentare ma quattro in 24 ore non si erano mai visti. Credo che debba essere un problema da affrontare immediatamente, cercando almeno di diminuire il sovraffollamento: come misura iniziale credo che non si possa fare altro.
In che modo si potrebbe diminuire il sovraffollamento?
In qualsiasi maniera, è inutile stare lì a girare intorno alla misura da adottare. Che la chiamiamo liberazione anticipata speciale o, come è più giusto chiamarla, amnistia e indulto, bisogna immediatamente cercare di ridurre quest’incidenza del sovraffollamento. Paradossalmente, il sovraffollamento non è dato da grandi criminali. La maggioranza delle persone è in carcere non per delitti gravi, come la massima sicurezza, l’associazione mafiosa, il traffico di droga a livello mondiale, ma è in carcere per altri reati. Oltre un quarto dei detenuti (secondo me anche di più) potrebbe ottenere misure alternative, ma non le può ottenere perché non ha i riferimenti sociali.
Cos’altro si potrebbe fare, per ridurre il sovraffollamento nelle carceri italiane?
È necessaria una politica penitenziaria amministrativamente condotta: le leggi ci sono e devono cambiare le situazioni di fatto. Non si può vivere in un’organizzazione che dovrebbe prevedere la socializzazione del detenuto e che, invece, un po’ per il sovraffollamento, un po’ per l’organizzazione, lo tiene chiuso nelle celle. Secondo il mio modesto parere, così si crea una situazione esplosiva che, per i più deboli, può portare al suicidio.
Il sovraffollamento si registra anche negli Istituti penali per minorenni (VITA ne ha parlato QUI).
Quello è stata la conseguenza del decreto Caivano. La Corte costituzionale ha detto mille volte che, nel momento in cui si pone una fattispecie di natura penale, bisogna ripensare anche a quelli che sono i contraccolpi del sistema penitenziario. Bisogna prima di tutto rispettare la dignità umana (attualmente non lo si sta facendo), poi bisogna tendere al reinserimento sociale. Il legislatore non può pensare soltanto in termini repressivi, ma deve pensare anche che ogni pena deve avere una finalità. Se si toglie questa finalità diventa una repressione pura e semplice, che non serve a nulla e determina tutti i problemi che abbiamo sotto gli occhi.
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Di recente, il ministro della Giustizia Nordio ha stanziato cinque milioni in più per i servizi psicologici in carcere e ha parlato della possibilità di usare caserme dismesse per costruire nuovi istituti penitenziari. Cosa ne pensa?
Il problema del sovraffollamento non si può risolvere soltanto con gli psicologi, a prescindere dal fatto che non ci sono gli psicologi che servono: più si aumentano gli utenti più non si riesce a seguirli perché il personale non basta. Il problema non è soltanto seguire i detenuti, è anche di organizzazione penitenziaria: bisogna dare speranza alle persone in carcere e trattarle come previsto dalle norme. È inutile che ci andiamo a lamentare delle carceri di altri Paesi, come l’Ungheria, e non vediamo come vanno le cose in casa nostra. Soffriamo di presbiopia: vediamo i mali altrui ma i nostri non li vogliamo vedere.
Per quanto riguarda le strutture, non servirebbero nuove carceri, ma carceri nuove: servirebbe un nuovo patrimonio penitenziario. Io sono stato per 16 anni direttore del carcere San Vittore di Milano, che è una struttura del 1870, non può gestire una pena così come la prevede l’ordinamento penitenziario. Poggioreale, Regina Coeli, San Vittore sono istituti vecchi che sono incentrati in modo “cellocentrico”, non prevedono spazi per fare delle attività, diventano soltanto depositi umani. Con tutta la buona volontà del personale, della Polizia penitenziaria, degli educatori, dei direttori. Se la politica penitenziaria vuole creare nuove carceri deve farlo non per avere più posti per i detenuti, ma per ridurli e creare carceri a dimensione umana. Questo bisognerebbe fare.
In un’intervista per VITA rilasciata al fondatore Riccardo Bonacina, quasi tre anni fa, lei affermava: «Il carcere in questi anni è stato lasciato alla solitudine dei detenuti e degli operatori, senza che l’opinione pubblica si interessasse al problema. Il carcere che si apre all’esterno, il carcere dove entrano i volontari […] diventa un carcere trasparente […]». In tre anni non è cambiato molto…
I problemi sono gli stessi. Le situazioni si vengono a creare in conseguenza di un clima esasperato, tenendo chiusi i detenuti la tensione cresce e basta una scintilla per far scoppiare tutto. La polizia penitenziaria, a volte, deve gestire da sola delle situazioni molto difficili. Lungi da me difendere e giustificare nessuno, ma a volte gli agenti sono vittime e carnefici nello stesso momento.
Un paio di mesi fa, a 21 agenti della Polizia penitenziaria del “Cesare Beccaria” di Milano sono stati contestati reati quali maltrattamenti a danno di minori, concorso nel reato di tortura, concorso nel reato di lesioni in danno di minori, un caso di tentata violenza sessuale. Sono fatti che non aiutano una situazione già incandescente.
È la politica penitenziaria che non va. Se si lascia un’istituzione senza direttore per anni e non si controlla, il clima di tensione aumenta sempre di più. È come se entri in una camera satura di gas, accendi una sigaretta ed esplodi in aria. Se il detenuto si lascia in cella tantissimo tempo e gli agenti stanno sempre lì a controllare, si esaspera una situazione. Il detenuto deve stare il più possibile fuori dalla cella, deve partecipare ad attività e gli agenti devono controllare il territorio, e non ad uomo la persona.
Se la politica penitenziaria vuole creare nuove carceri deve farlo non per avere più posti per i detenuti, ma per ridurli e creare carceri a dimensione umana
Prima a causa del Covid, poi per la scarsità di personale il Terzo settore è spesso tenuto fuori dagli istituti penitenziari, soprattutto negli ultimi anni.
Il rischio è concreto: se si tengono fuori i volontari, si fanno poche attività, si tengono sempre più i detenuti chiusi nelle celle le situazioni si esasperano. Secondo me manca una politica penitenziaria che significa applicare la legge. Io vedo che la legge non viene rispettata e diventa un paradosso.
Qual è il paradosso?
Si puniscono le persone perché non rispettano la legge e lo Stato, l’istituzione che dovrebbe dimostrare a chi l’ha violata come si coniuga il rispetto della legge è la prima ad essere fuorilegge. Il carcere non è più un’istituzione che porta all’umanità e che tende al reinserimento ma tradisce se stessa e diventa punizione pura e semplice. E quindi diventa terra di conflitto. Sono situazioni che ho visto all’inizio della mia carriera, ma c’erano i brigatisti, una situazione sociale diversa, criminali differenti. Adesso rischiamo di “fare come i capponi di Renzo”: tutti litigano con tutti e non si capisce in che direzione si stia andando.
Foto di apertura LaPresse
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