Oltre la responsabilità di impresa

Rispieghiamo il brand activism per chi non c’era

Secondo il portale americano Vox, l'attivismo delle grandi marche è finito: su aborto e Gaza le corporation, attivissime sul MeToo e sul Black Lives Matter, tacciono. Abbiamo chiesto a una studiosa del fenomeno di ricordare che cosa si debba intendere esattamente per questa forma di mobilitazione "dall'alto"

di Maria Fiorenza *

A fine maggio un articolo di Vox ha dato per morto il brand activism: se durante la presidenza di Donald Trump molte grandi aziende erano letteralmente scese in campo, oggi – scrive Michael Serazio – dall’aborto a Gaza, i grandi marchi tacciono. Dunque, titola il giornale online, Ai vostri marchi preferiti non importa più niente di essere woke. Abbiamo chiesto a Maria Fiorenza, ricercatrice qualitativa che da 10 anni si occupa di brand purpose e brand activism, di ricordare che cos’è l’attivismo delle grandi marche.

Cos’è la pubblicità? Al netto di tutto, la pubblicità è un modo (quasi) infallibile per far circolare idee. È così. Anche quando non ci convince a comprare il prodotto, la pubblicità ci fornisce informazioni, nuovi modelli sociali e motivazioni al cambiamento.

Non tutte le pubblicità lo fanno o lo fanno bene, ma questo succede più di quanto si creda. E tutte le volte che succede, le idee che vanno in circolo contribuiscono a qualche piccola o grande trasformazione. Ma allora, se questo accade quando ci parla di un prodotto, cosa può fare la pubblicità quando invece ci vuole parlare proprio di un’idea?

Che possa fare molto è quello che pensano quelle grandi imprese che, attraverso i loro brand più popolari, propongono messaggi a favore del progresso sociale su tematiche quali, per esempio, il gender gap, la discriminazione nei confronti delle diversità, la sostenibilità ambientale.

Un percorso narrativo

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