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Un ricercatore lancia un’accusa. Altro che uranio, il problema è quel che si spara

Stefano Montanari è nanopatologo all’università di Modena e Reggio Emilia. Ha trovato che tumori e linfomi tra i soldati hanno un’altra origine. Ecco qual è.

di Benedetta Verrini

Valery Melis è stato l?ultimo, in ordine di tempo, a morire. La chiamano sindrome dei Balcani: un complesso di sintomi che ha già fatto 26 morti e quasi 300 malati. Il giovane caporalmaggiore nei Balcani c?era stato nel 1999. A fine anno aveva già addosso il linfoma di Hodgkin. La sua scomparsa, il 5 febbraio scorso, a soli 26 anni, ha riportato alla ribalta la questione dell?uso di proiettili all?uranio impoverito. è stato davvero questo a scatenare l?aumento dei linfomi e di altri tumori tra militari e civili presenti nei teatri di guerra? Non ne è affatto convinto Stefano Montanari, consulente scientifico del Laboratorio di biomateriali dell?università di Modena e Reggio Emilia. Vita: è solo una questione di uranio e di radioattività o c?è dell?altro? Stefano Montanari: C?è dell?altro. Non si può dire che l?uranio impoverito sia la causa di una situazione sanitaria così insolita come quella relativa alla sindrome dei Balcani. Basta pensare al fatto che una quantità significativa di linfomi e altri tumori è stata riscontrata anche tra soldati mai impegnati in teatri di guerra né venuti in contatto con armi radioattive. Inoltre, il problema ha colpito anche operatori civili impiegati sul posto, oltre che la popolazione residente. Un gruppo assolutamente eterogeneo, insomma. Eppure, quando andiamo ad analizzare reperti di tessuti provenienti da autopsie o biopsie vediamo sempre la stessa cosa. Vita: Cosa? Montanari: Detriti piccolissimi, nell?ordine di miliardesimi di metro, di metalli semplici o combinati, come ferro, zinco o titanio. Non sono visibili con un esame radiografico o istologico tradizionale, ma solo con l?impiego di una tecnica innovativa di microscopia elettronica, messa a punto nel laboratorio emiliano dalla dottoressa Antonietta Morena Gatti, esperta di nanopatologie e creatrice di un gruppo di studio con cui collaboro. Vita: Perché queste particelle dovrebbero essere così pericolose? Montanari: Vengono assorbite tramite la respirazione e gli alimenti. Nelle condizioni riscontrate nei Balcani durante la guerra, si accumulano in diversi organi, dal fegato ai reni, ma le parti più sensibili paiono essere i linfonodi. Questi reagiscono con un?infiammazione, che nel tempo si aggrava e sviluppa i tumori. Vita: Cosa sviluppa le nanoparticelle? Montanari: Le esplosioni. Nel caso dell?uranio impoverito, l?impatto con un bersaglio (un veicolo, un blindato, un edificio), innesca una temperatura di oltre 3mila gradi. Questo calore fa sublimare la materia solida, che nebulizza nell?aria e poi, raffreddandosi, solidifica sotto forma di micro e nanosfere che vengono trasportate dal vento e vengono respirate, o cadono sul territorio finendo nella catena alimentare. Vita: Se si elimina l?uso di uranio impoverito nei proiettili, cambia qualcosa? Montanari: L?uranio è un falso problema: attribuire solo a questo la responsabilità delle morti è semplicistico e inutile. Un?esplosione sviluppa comunque nanoparticelle, tanto che il rischio di contaminazione è altissimo anche per la popolazione che qui in Italia vive vicino a poligoni di tiro, ad esempio. è possibile che l?esercito adotti nuovi tipi di proiettili, ma l?unica soluzione possibile per evitare queste sindromi è ? smettere di fare la guerra. Vita: Sa che la commissione Mandelli, istituita nel 2001, non ha ancora stabilito un nesso di causalità tra le missioni nei Balcani e le morti dei militari? Montanari: Per forza. Non aveva gli strumenti giusti, non ha neppure avuto a disposizione un conteggio preciso dei militari coinvolti. Alla fine, non ha cavato un ragno dal buco. Ma lei pensa che lo Stato abbia davvero interesse a dimostrare un nesso di causalità?


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