Cooperazione
Africa, Pedroni (Coop): «Per costruire i progetti dobbiamo ascoltare le comunità»
Il presidente dell'Associazione nazionale cooperative di consumatori ha visitato i cinque campi profughi sostenuti in Burundi, secondo Paese più povero al mondo, sostenuti con la campagna #CoopForAfrica. «Progetti di emergenza e sviluppo devono andare di pari passo», dice Pedroni. «E soprattutto le iniziative devono essere condivise con le comunità che si sceglie di supportare»
La storia delle Coop nel campo della cooperazione internazionale, in Africa e non solo, è caratterizzata da un’ampia varietà di interventi. Quelli di solidarietà attiva, in risposta alle emergenze umanitarie che si verificano a causa di guerre e carestie e quelli di stimolo all’imprenditorialità nell’ambito del commercio equo e solidale. Nei progetti, una fase importante è quella della verifica dei risultati raggiunti e della pianificazione degli interventi successivi.
All’Africa è dedicato il nuovo numero del Magazine e, proprio da questi spunti, è nato il dialogo con Marco Pedroni, presidente di Ancc-Coop – Associazione Nazionale Cooperative di Consumatori – Coop. Nei mesi scorsi Pedroni è stato in Burundi con una delegazione di Coop per visitare cinque campi profughi sostenuti con la campagna #CoopForAfrica. Al suo fianco, la capacità organizzativa e pratica dell’agenzia Onu per i rifugiati – Unhcr, Comunità di Sant’Egidio e Medici senza frontiere.
Presidente Pedroni, che cosa ha trovato in Burundi?
In una settimana abbiamo fatto visita a cinque campi di rifugiati gestiti dall’Unhcr. Insieme a un piccolo gruppo di collaboratori, siamo andati a vedere come erano stati utilizzati i fondi raccolti con la campagna #Coopforafrica, che ammontano complessivamente a 1.653.962 euro grazie a 125.553 donatori. Ciascun campo ospita dalle dieci alle 20mila persone. Si tratta di rifugiati provenienti in gran parte dal Congo, che scappano dalla guerra e, purtroppo, non hanno grandi prospettive di poter tornare in tempi brevi nel loro Paese e nelle loro comunità.
Che obiettivo vi eravate prefissati?
La campagna è nata ai tempi dell’emergenza covid, quindi anzitutto dotare questi campi di alcune attrezzature e strumenti di cui avevano bisogno per favorire la vaccinazione. Poi, di fatto, sono state sostenure tutte le attività mediche in quelle comunità.
Il Burundi, grande circa come la Lombardia, ha 13 milioni di abitanti che vivono in condizioni di povertà.
È un Paese che vive un paradosso: bellissimo dal punto di vista naturalistico e poverissimo dal punto di vista organizzativo e sociale. Parliamo del Paese con il secondo reddito pro capite più basso al mondo.
Economia di sussistenza?
La terra, fertilissima, viene coltivata con badili, zappe e pochi animali per il lavoro nei campi. C’è un fenomeno di sottoalimentazione, per cui, di fatto, le persone mangiano sempre le stesse cose, ma non di denutrizione cronica acuta. Ed è importante notare che quella che abbiamo visto è una povertà molto dignitosa, dove le comunità si auto organizzano per il loro sostentamento.
Dal punto di vista infrastrutturale?
I mezzi di trasporto sono pochi e le strade per la maggior parte non sono asfaltate: con un piccolissimo investimento in tecnologie non particolarmente avanzate il Paese potrebbe crescere molto dal punto di vista della capacità di produrre beni per la popolazione.
Com’è la vita nei campi rifugiati?
I campi rifugiati sono una realtà molto più dura e impegnativa. Le persone sono sostenute dalle organizzazioni internazionali e dal governo, senza possibilità sostanziali di uscirvi.
Perché?
Se uscissero, perderebbero qualsiasi sostentamento ma, rimanendo all’interno nei campi non lavorano. Perciò le persone non hanno la prospettiva di potersi rendere indipendenti né la possibilità di tornare nel Paese, che è molto remota. La vita nei campi è dura non solo e non tanto dal punto di vista della sussistenza, ma soprattutto della prospettiva.
Come si sono innestati i vostri aiuti in queste realtà?
Nei campi c’è una natalità molto alta. Mediamente, i medici e infermieri riferiscono di un paio di bambini nuovi nati al giorno, circa 600 bambini all’anno. Oltre all’aiuto iniziale per le vaccinazioni, uno dei prossimi obiettivi è l’aiuto a dotarsi, per almeno un paio di campi, di una camera operatoria e di un’ambulanza, per poter raggiungere l’ospedale con più sicurezza nei casi di parti difficili.
In quali altri Paesi sono arrivati gli aiuti della vostra campagna?
Quando nel 2021 l’abbiamo lanciata con il provocatorio claim Per qualcuno essere no vax non è una scelta, abbiamo mobilitato i nostri soci raccogliendo risorse importanti per destinarle a Medici senza frontiere, Unhr e Comunità di Sant’Egidio. Queste organizzazioni, con le quali la collaborazione era in atto da tempo, l’impegno vaccinale si è indirizzato anche in Nigeria, Etiopia, Malawi, Mozambico, Repubblica centrafricana e Congo. Nel nostro viaggio siamo andati in Burundi perché era emersa una forte necessità e proprio lì sono state riallocate la maggior parte delle risorse ottenute dalla donazione di Coop.
Come proseguirà questo vostro impegno in Africa?
Dall’autunno pensiamo a una nuova campagna di sottoscrizione attraverso i punti di Carta socio Coop, per raccogliere risorse utili a fare le nuove operazioni di supporto sanitario nei campi profughi di cui ho accennato prima. Ma le azioni prettamente umanitarie non sono le uniche.
Quali sono gli altri progetti?
Con la linea chiamata Solidal, composta da prodotti provenienti da alcuni Paesi del sud del mondo – in Africa Senegal, Ghana e Kenya – cerchiamo di mettere in moto un meccanismo economico virtuoso attraverso il commercio equo e solidale. Lavoriamo costantemente affinché questi prodotti vadano a beneficio di quelle comunità fatte da tante piccole cooperative. Non è così semplice perché gli standard italiani ed europei portare del cibo sulle nostre tavole, ma posso affermare che ci riusciamo anche in modo significativo. Non solo con la linea Solidal, anche con alcuni prodotti a marchio Coop.
Che cosa si potrebbe fare di più in Burundi?
Immaginare di introdurre meccanismi di interscambio commerciale ed economico con realtà diverse dalla comunità ristretta è un’idea che allo stato attuale risulterebbe un po’ forzata. Penso sia necessaria qualche tipo di riforma molto graduale che permetta di aprire le comunità, continuando con progetti di solidarietà attiva e aiuto umanitario concreto.
Come vede il futuro della cooperazione internazionale?
Penso che la cooperazione internazionale, quando è davvero forte e disinteressata, debba evitare l’errore di pensare che il bisogno delle comunità sia soltanto quello di un salto tecnologico. Lo dico sulla base delle mie esperienze di cooperatore, che sono numerose anche se voglio precisare di non considerarmi un esperto in materia.
Su cosa bisogna puntare?
Accanto agli interventi sulle emergenze, che restano essenziali per fronteggiare gli effetti delle guerre, i progetti di sviluppo devono essere concepiti come iniziative che intersechino fino in fondo la cultura e le comunità con cui vanno a confrontarsi. Devono quindi rappresentare elementi di aiuto e stimolo all’evoluzione della comunità. Si commette un errore formidabile a sostituirsi in termini economici e tecnologici alle comunità.
Che cosa tenere a mente?
Non ci sono solo macchine, attrezzature e tecnologie ma c’è anche cultura, istruzione, condivisione. Se la comunità locale non sente in qualche modo utile il passo che si propone, ma lo vede semplicemente come una donazione che finisce lì o come un aiuto che va sopra le loro teste, non funziona.
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Le foto, fornite da Coop sono a cura di Paolo Bonaccini, autore di un reportage sulla campagna #Coopforafrica
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