Formazione

Turchia e Myanmar: che ne è delle due attiviste. Le storie parallele di Leyla e Aung

Una in carcere ad Ankara. L’altra tenuta agli arresti domiciliari dai militari di Rangoon. Che cosa si può fare per loro?

di Daniele Scaglione

Da una giunta che si fa chiamare Consiglio per la pace e lo sviluppo, il minimo che ci si possa aspettare è che prenda provvedimenti per garantire al proprio Paese tranquillità e sicurezza. Ed è probabilmente con questo scopo che i governanti della Birmania continuano a tenere agli arresti domiciliari Aung San Suu Kyi. In effetti la signora Suu Kyi ha tutte le caratteristiche della pericolosa agitatrice di folle: benché agli arresti ha guidato la sua formazione politica, la Lega nazionale per la democrazia, a trionfare alle elezioni del maggio 1990. I militari che guidano il Paese hanno comunque mostrato le loro buone intenzioni nel 1995, quando le hanno concesso di uscire di casa. Anziché godersi la libertà di passeggiare per il Paese, Aung San Suu Kyi ha ripreso la propria attività politica, costringendo i militari a sottoporla nuovamente agli arresti domiciliari, il 31 maggio dell?anno scorso. Nonostante giungano notizie preoccupanti sulla sua salute, la signora non dà segno di volersi dare una calmata e così non è dato a sapersi quando potrà finalmente tornare libera. A una delegazione di Amnesty International, entrata in Myanmar nel dicembre scorso, i militari non hanno concesso neppure di incontrarla. Sulle sorti di Aung San Suu Kyi nei mesi passati i nostri giornali hanno pubblicato qualche articolo, talvolta scritto da un politico un po? più attento dei suoi colleghi ai temi dei diritti umani, ma il problema di fondo è che le continue restrizioni della sua libertà sono solo la punta dell?iceberg della pesante repressione in atto in Myanmar. L?attenzione dei governi stranieri è andata via via defilandosi: i militari di Rangoon non sembrano avere connessioni con la rete del ?terrorismo mondiale?, dunque non costituiscono un problema. Salvo eventi improbabili, il Consiglio per la pace e lo sviluppo alla metà dell?anno prossimo ricoprirà addirittura la presidenza dell?Asean, l?Associazione delle nazioni del Sudest asiatico, avendo finalmente superato le diffidenze di buona parte dei Paesi che la compongono. La giunta militare del Myanmar, in altre parole, sta riuscendo a ottenere un certo credito internazionale, nonostante il suo comportamento continui a peggiorare. Il Paese ha persino conquistato il primato di nazione con la più alta percentuale di minorenni arruolati nel proprio esercito: oltre 70mila secondo una ricerca di Human Rights Watch. La vicenda di Aung San Suu Kyi assomiglia sempre più a quella di Leyla Zana. Eletta nel 1991 nel parlamento turco, nel suo primo giorno da deputata Leyla Zana si sedette al suo posto portando tra i capelli i colori del popolo curdo, (giallo, rosso e verde). Quando prese la parola dichiarò di lottare per la fraterna convivenza tra curdi e turchi. Solo che lo disse in lingua curda, guadagnandosi così una pioggia di insulti, la non trascrizione del suo discorso e, successivamente, l?arresto. Leyla Zana è ancora in carcere e il 15 gennaio scorso il suo caso è stato sollevato davanti al governo turco anche dal presidente della Commissione europea, Romano Prodi, in visita ad Ankara. Al momento le varie riforme in favore dei diritti umani realizzate in Turchia sono solo sulla carta. Lo stesso sembra per la condizione della donna in tutto il mondo: l?assegnazione del Nobel per la pace all?iraniana Shirin Ebadi non deve generare illusioni. Dodici anni prima di lei l?ha ottenuto la stessa Aung San Suu Kyi, subito dopo la guatemalteca Rigoberta Menchù. Questi riconoscimenti sono importanti, ma l?impegno concreto dei governi in favore di una vera uguaglianza in dignità e diritti tra donne e uomini ancora è molto poco diffuso.


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