Mondo

Andreatta: “Ostaggi dei vecchi attivisti”

Anteprima di VITA non profit in edicola, a un anno dalla grande manifestazione pacifista del 15 febbraio: "Le mobilitazioni servono solo se alla fine hanno un impatto sulle istituzioni"

di Carlotta Jesi

“Il movimento pacifista oggi ha di fronte un grande scoglio: diventare grande e imparare ad avere un impatto sulla politica, oppure continuare a trincerarsi su posizioni rigide che non hanno speranza di alterare i veri equilibri politici”.
A un anno di distanza dalle manifestazioni contro la guerra in Iraq che trascinarono in piazza milioni di persone in tutto il mondo, è questo il messaggio che Filippo Andreatta, docente di Scienze politiche e Relazioni internazionali all?Università di Parma, lancia al popolo delle bandiere iridate. A quello italiano ma, soprattutto, a quello americano: “Che vinca il repubblicano Bush o il democratico Kerry, un pacifismo intransigente non avrà alcun effetto sulla politica degli Stati Uniti”.
Una politica profondamente diversa da un anno fa. Lo dimostra il dietrofront del Segretario di Stato, Colin Powell: “Se avessi saputo che Saddam non possedeva armi di distruzione di massa non avrei mai raccomandato l?intervento in Iraq”.
E perfino il libro dell?ex ministro del Tesoro americano, Paul O?Neill che da settimane guida la classifica dei bestseller con le sue rivelazioni sulle reali motivazioni che avrebbero spinto Bush a dichiarare la seconda guerra del Golfo.

Professore, com?è cambiata l?America da un anno a questa parte?
Ha preso coscienza del fatto che perfino gli Stati Uniti non riescono a trasformare in stabilità politica la loro predominanza militare. Quest?anno ha dimostrato che la guerra preventiva e unilaterale non è una strategia facile, l?ha capito chi è sempre stato contrario a questa strategia e anche chi si era pronunciato in suo favore. Da un lato, si è capito che, se si fa fatica a esportare la democrazia in un Paese piccolo come l?Iraq, tentare di farlo con gli altri Paesi che fanno parte dell?Asse del male sarebbe ancora più difficile. O addirittura impossibile. Dall?altro, è diventato chiaro a tutti che il supporto dell?opinione pubblica alla strategia della guerra preventiva è molto debole, soprattutto se non ci sono informazioni precise sulla sua dinamica. E ci sono pochi dubbi sul fatto che l?intelligence americana sia stata imprecisa: in futuro, sarà molto più difficile per l?amministrazione americana mobilitare un consenso interno e internazionale per operazioni di questo genere.

La mobilitazione pacifista ha contribuito a introdurre un nuovo approccio verso l?ordine mondiale e la lotta al terrorismo?
No. Le mobilitazioni interne servono solo se hanno un impatto sulle istituzioni: se cambiano gli equilibri elettorali o quelli parlamentari. Ma questo non è successo. Né in America né nei Paesi che l?hanno appoggiata nella guerra. Non è detto che non accadrà in futuro, ma i fatti sono che Blair, Aznar e Berlusconi sono ancora al loro posto. Ciò che ha fatto il movimento, è sensibilizzare i media su un?interpretazione critica della guerra. E, in questo senso, possono aver contribuito a creare un clima diverso anche per chi era a favore dell?intervento in Iraq. Il movimento pacifista che è esploso un anno fa, è stato indebolito da due contraddizioni di fondo.

Quali?
La prima, è che la partecipazione di piazza rischia di fungere da sostituto alla partecipazione istituzionale, alla militanza nei partiti e perfino all?andare a votare. Ma così facendo, i pacifisti corrono il rischio di trasformarsi in un movimento che si limita a esprimere un?opinione. Un movimento estetico che non ha impatto sugli equilibri politici veri e propri. La seconda contraddizione, è che la maggioranza del movimento, quello che l?hanno scorso è sceso in piazza per la prima volta perché ha sentito una pulsione etica, viene screditato da piccole forze di attivisti arroccati su posizioni rigide e preconcette nei confronti della guerra, che hanno una grande capacità di influenzare i media. Le posizioni di questi vecchi attivisti hanno fatto passare in secondo piano le motivazioni dei nuovi, facendo pensare che a spingere in piazza milioni di persone non fosse la natura speciale degli avvenimenti post 11 settembre, ma sempre le solite posizioni antiamericane.

A che piccole forze si riferisce?
Quelle con grandi capacità organizzative e, quindi, di influenza sui media. Le stesse che erano state contrarie all?intervento in Kosovo. E proprio questo collegamento tra il ?no? alla guerra in Kosovo e quello alla guerra in Iraq ha smontato parecchia della superiorità morale del movimento pacifista emerso l?anno scorso. Basterebbe chiedere a dei serbi o a dei kosovari se oggi sono più o meno contenti degli iracheni.

Il candidato democratico Howard Dean ha costruito la sua campagna elettorale proprio sull?appoggio dei tanti attivisti che l?anno scorso erano scesi in piazza per dire no alla guerra. Lo danno per spacciato, è una sconfitta anche della società civile?
Dean ha cercato di sfruttare le contraddizioni di cui parlavo prima coinvolgendo in un sistema istituzionale, come le primarie democratiche, l?energia e le motivazioni di tanti attivisti pacifisti e ambientalisti. Nonostante i sondaggi lo dessero in vantaggio, e nonostante la sua campagna fosse ben organizzata, è stato spazzato via come neve al sole. Il che mi fa pensare che le contraddizioni insite nel movimento esistano ancora.

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