Ritiro sociale, le risposte

Hikikomori, nel borgo dove non ti tirano fuori di camera

di Daria Capitani

Sulla collina di Superga, a Torino, Borgo Rubens, all'apparenza un bel casolare come gli altri. All'interno però, grazie a una collaborazione fra pubblico e non profit, si è strutturato un centro che lavora sui giovani in difficoltà. VITA è andato a visitarlo

Piove forte su Torino. C’è traffico fino a una stradina laterale, stretta e tutta curve, sale sulla collina sopra Superga. Il meteo inclemente non rende giustizia a un’oasi verde a pochi chilometri dal centro. Sul cancello c’è scritto Borgo Rubens e in effetti il primo colpo d’occhio è quello di piccoli casolari che si affacciano su un’unica corte. Una porticina si apre: dentro un viavai di persone, qualche cane e una bambina che gioca a indovinare il nome della ragazza che le sta parlando.

Storie di rinascita

Sono qui per raccontare storie di adolescenti e di rinascita. L’immagine che ho in mente è quella che appare a chiunque digiti su un motore di ricerca la parola “Hikikomori”: una stanza chiusa, il buio, uno schermo e un ragazzo dai tratti somatici giapponesi. È un termine nato in Giappone che significa letteralmente “stare in disparte”: viene utilizzato in gergo per riferirsi a chi decide di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi, rinchiudendosi nella propria abitazione, senza aver nessun tipo di contatto diretto con il mondo esterno, talvolta nemmeno con i propri genitori. È un fenomeno che riguarda soprattutto i giovani dai 14 ai 30 anni e che in Italia sta prendendo sempre più spazio: l’associazione nazionale Ritiro sociale volontario Hikikomori Italia, combinando i dati di due recenti studi condotti rispettivamente dall’Istituto Superiore di Sanità e dal Cnr Ifc Istituto di Fisiologia clinica in collaborazione con l’associazione Gruppo Abele Onlus di Torino, ipotizza sul suo sito che «in Italia, nella sola popolazione studentesca, ci siano tra i 50mila e i 100mila hikikomori in fase 1, ovvero ragazzi isolati da tutto (sport, amici, attività extrascolastiche) ma che continuano ad andare a scuola, seppur in modo spesso saltuario».

Le etichette, fuori

Il caos del Borgo è difficile da associare all’immagine della stanza buia. Così è subito chiaro che qui le etichette non entrano, vanno lasciate fuori, nel traffico dell’ora di punta. La psicologa Martina Salvi lo spiega senza mezzi termini: «Noi non tiriamo fuori dalla camera qualcuno che non esce. Il nostro servizio funziona molto bene come accompagnamento dal periodo più brutto all’uscita nel mondo, oppure in fase preventiva. È per questo che crediamo nella continuità». Insieme a Carlotta Bruno (foto sotto, ndr), anche lei psicologa, è l’anima del Centro Hygge, il progetto nato in seno all’associazione Rubens per rispondere alle richieste di aiuto da parte di famiglie con figli adolescenti che presentano criticità e difficoltà nell’affrontare le sfide evolutive.

Carlotta Bruno, psicologa

Da un cavallo diffidente un’attitudine per rinascere

Prima di essere borgo, sette ettari di boschi e prati in cui gravitano centinaia di famiglie e decine di animali, Rubens è un’associazione sportiva dilettantistica e di promozione sociale. Ma quando tutto doveva ancora succedere, Rubens era un cavallo difficile e diffidente. «Era stato regalato a Francesca Bisacco, oggi biologa, fondatrice e direttrice della struttura, in un momento di crisi in adolescenza», racconta Bruno. «Si sono salvati a vicenda: lui ha trovato una relazione vincente, lei una base sicura». Dieci anni fa, la decisione di intitolare a Rubens il nome di un’associazione che si occupasse di riabilitazione equestre e ippoterapia. Poi i bisogni sono cambiati, meglio sarebbe dire sono cresciuti. Oggi Rubens è un’équipe: ne fanno parte psicologi, psicoterapeuti, terapisti della riabilitazione psichiatrica, psicomotricisti, biologi, etologi, tecnici equestri e veterinari che si occupano di riabilitazione, educazione e inclusione sociale e lavorativa, è sede di tirocinio per l’Università di Torino ed è socia della Cpd – Consulta per le Persone in Difficoltà. «Che sia da un momento no o da una vita intera, siamo stati salvati dai nostri animali: vogliamo offrire a chiunque ne abbia bisogno la possibilità di provare le stesse emozioni che ci hanno portato fin qui». Chi ci lavora, lo definisce luogo di fioritura.

Genesi di un centro

Il Centro Hygge è stato inaugurato a settembre, ma è attivo di fatto da tre anni. «Tutto è partito da una richiesta di collaborazione dal Reparto di Neuropsichiatria infantile dell’Ospedale Regina Margherita di Torino nel sostegno a ragazzi fragili, provenienti da periodi di malattia o criticità di diverso tipo. Abbiamo proposto di attivare percorsi di ippoterapia in una formula a doppia coppia: una coppia di ragazzi e una coppia di operatori per un anno di incontri. È stato illuminante, la finestra aperta su un bisogno e sull’enorme potenziale del Borgo. Nell’adolescenza il gruppo dei pari ha un ruolo fondamentale: l’adulto deve esserci per sostenere, ma di base per trovare se stesso l’adolescente si deve allontanare». La formula funziona: «Alla fine dell’anno scolastico ci siamo accorti che in estate non poteva cadere l’esperienza, avrebbe vanificato la strada fatta. Abbiamo costruito progetti, vinto bandi. Oggi Hygge è un luogo sicuro per ventidue ragazzi dai 14 ai 21 anni con difficoltà o criticità nell’area psicologica, comportamentale e/o relazionale o semplicemente con la curiosità di sperimentarsi in un ambiente stimolante e protetto. Si lavora a piccoli gruppi, massimo 8 partecipanti, cercando di dare sostanza alla parola danese Hygge, che indica uno stato d’animo, un’attitudine alla vita che fa sentire accolti, compresi, a casa».

Prendersi cura è il primo passo per sbocciare

Come si può definire il ritiro sociale? «Non ho mai pensato di dare una definizione. Ti direi genitori che telefonano, preoccupati e spaventati per la sofferenza che vedono nei loro figli, che ci chiedono di aiutarli a sostenerli. Ma anche ragazzi che escono dal gioco, che hanno talmente paura di sbagliare, di non essere all’altezza delle aspettative altrui, da rinunciare a qualunque cosa possa provocare un senso d’ansia che attanaglia. Significa chiudersi in casa, a volte in camera, perdere il ritmo circadiano, stare svegli di notte e dormire di giorno, perché è impossibile anche soltanto pensare di salire su un autobus, raggiungere la scuola, sostare in un luogo affollato».

Si può fiorire a tre come a 99 anni. Per farlo, occorrono desideri. «È proprio ciò che manca nei ragazzi che approdano qui. Che musica ascolti?, gli chiedo. Silenzio. Quale serie guardi? Mmm. Ti piacciono i videogiochi? A volte è l’unico spiraglio». Martina Salvi (foto sotto, ndr)è una di quelle persone che quando parlano senti che stanno ragionando ad alta voce: «Mi sembra di avere di fronte una generazione completamente frizzata», racconta, facendo riferimento al termine inglese freezing, che in psicologia indica uno stato di immobilizzazione come risposta a una situazione di pericolo. «Piuttosto che sbagliare o mostrarmi non abbastanza competente, rinuncio e mi tiro fuori. Lo faccio fino ad arrivare al punto in cui non c’è più niente che mi muove».

Martina Salvi, psicologa

Si può tornare a giocare

Bruno e Salvi lo sanno, perché lo hanno visto accadere. «Succede partendo dal corpo, a volte mettendosi a correre: qualcuno una volta mi ha detto che non se lo ricordava più com’era correre. Succede la prima volta che una ragazza arriva con gli stivali di gomma, quando sbagliamo insieme e ci accorgiamo che quando si fa una cosa nuova è normale commettere errori. Non abbiamo regole sul cellulare perché non ne abbiamo bisogno: se stai portando il fieno a un cavallo non hai tempo di tirarlo fuori dalla tasca, spesso lo lasci nello zaino per non perderlo».

Negli ultimi due mesi, l’associazione Rubens ha avuto un boom di richieste per accedere al Centro Hygge, sono arrivate chiamate persino dalla Puglia. «Il valore aggiunto di questa esperienza credo stia nel fatto che non propone un’attività ricreativa specifica: qui i ragazzi svolgono un’attività per prendersi cura di qualcuno o qualcos’altro da sè, un animale, il gruppo, il punto ristoro, l’orto. È la magia del volontariato. Abituati a essere presi in cura, iniziano a prendersi cura del borgo. È liberatorio».

I fiori di Rubens

I fiori di Rubens hanno occhi, gambe e nomi di fantasia. Salvi e Bruno lo dicono esplicitamente: «Non spettacolarizziamo i nostri ragazzi, il lavoro che facciamo è di valore». Le loro storie arrivano in ogni caso dritte al punto: fiorire si può.

Anna non andava più a scuola: un ricovero in ospedale, difficoltà a livello familiare, una malattia impattante sulla vita quotidiana. «È arrivata in coppia, con la sua compagna è stata sostegno e si è fatta sostenere. È stata con noi un anno e mezzo, si è iscritta alla scuola serale. La settimana scorsa è tornata, non la vedevo da mesi, mi ha detto: sto preparando il progetto di Capolavoro per la Maturità (l’insieme delle competenze che lo studente ritiene di aver sviluppato durante la carriera scolastica, nda), il mio l’ho fatto qui. Siamo andate sulla panchina dove l’ho vista tornare a respirare: abbiamo guardato la città dall’alto, lontana ma ben visibile».

Vado al borgo

Quello di Andrea era un ritiro sociale accompagnato da ansia e crisi depressive. «È con noi da tre anni, è passato dal dire “Vado al borgo” a “Noi del borgo”. Ora viene ogni due settimane perché con il suo gruppo di amici ha iniziato il calcetto». Il senso della sua storia sta tutto qui.

E poi ci sono i genitori. Anche loro sono fiori di Rubens. «Scoprono la fiducia nei confronti dei figli, allentano il controllo, si liberano delle etichette. Se chiedi a un adulto che cosa desideri per i propri figli, spesso ti risponde “che siano felici”. E invece vanno coltivate e sperimentate tutte le emozioni, anche le più dure, possono diventare capolavoro».

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