Televisione
Parla il regista Daniele Segre. Che bel ciak di Vita
Un ciclo dedicato ai giovani e al futuro. Il 25 febbraio va in onda la puntata dedicata al nostro giornale.
“Io i film li faccio per me”. Daniele Segre, regista, per un paio di settimane ha scorazzato per la redazione di Vita, ha messo sotto il fuoco della sua telecamera digitale tutti i colleghi più giovani. Ha chiesto loro di tirar fuori tutto, di non temere e di non barare. Poi, a lavoro finito, guardandoci con l’affetto di chi se ne va a malincuore, ci ha confidato proprio questo: “Io i film li faccio per me”. Ma come, lui, Segre, il regista del sociale, quello che Goffredo Fofi ha benedetto per non aver ceduto alle lusinghe del “cinema di consolazione”, lui che è sceso nelle miniere, che ha portato le vecchie sulla scena, che per tutta la vita non ha mai distolto la sua cinepresa dalla realtà, ora ci dice che il cinema lo fa per sé?
Che vuol dire? Eppure, a vederlo all’opera, c’era da intuirlo. Segre comunica l’ansia di chi non ha capito abbastanza, di chi vuole andare ancora più a fondo. Di chi non è mai stanco di scavare.
Lontano dai filtri
Lui non lo dice, ma questo è il suo vero modo di rispettare e amare chi ha di fronte. Lui invece dice questo. Dice: “Non ho scelto il cinema della realtà, ma quello delle persone”; e dice anche: “Filmo perché è il mezzo per approfondire le mie inquietudini, per dare uno sbocco al mio bisogno di esistere”. Ok, ma per arrivare dove? Per cercare che cosa? “Voglio superare quel filtro un po’ disumano determinato dalle maschere che ci mettiamo ogni giorno. Anche a Vita è andata così: ognuno mi ha regalato un pezzo della propria intimità affettiva. Cadono le esteriorità e ciascuno trova il proprio modo di darsi”.
E lei, in cambio, che cosa lascia? “Lascio una mia verità”. Eccolo, Segre, sempre pronto a farsi trovare là dove tu non lo metteresti. Il suo è un cinema della realtà, ma la realtà vista con i suoi occhi è un organismo da rispettare nelle sue infinite mutazioni. “Mi fa ridere chi presume di catturarla. Il cinema d’inchiesta, per esempio: è convenzionale nelle sue pretese. La realtà invece è contaminazione continua e io stesso, entrando in gioco, sono un elemento condizionante. Davanti a ogni persona che mi si presenta devo cercare soluzioni espressive che dicano tutto di lei”. Segre non lo vuol dire, ma alla fine è convinto che nella rappresentazione la realtà diventi più vera di quella che è. O no? “è così, quando le cose, cioè i film riescono”. E questa serie di film per Rai3 rientra nella categoria dei film riusciti? “Lo direte voi, lo diranno gli spettatori”. Già, ma lei ne è soddisfatto: “Io sono contento di non avrei fatto della fiction. Di non essere caduto nella trappola del rincoglionimento che ci contagia”.
Ma se dovesse dire che giovani ha incontrato? “Ho conosciuto giovani che percorrono una fase di cambiamento e realizzazione dei propri desideri. Il dato comune, nonostante la diversità delle realtà filmate, è il bisogno d’espressione che i ragazzi hanno, la voglia di coniugare il desiderio interiore con la possibilità di farlo diventare una professione”. Credevamo fosse andato a caccia di devianze? “Li avessi guardati con quelle lenti, avrei trovato solo stereotipi. Invece ho incontrato dei ragazzi che si pongono dei problemi, che li affrontano senza piangersi addosso e che non hanno perso ciò che forse più manca al nostro tempo e che frena gli ideali: i sogni”.
Inutile chiederle un bilancio sociologico, ma un bilancio umano quello sì… “Ho trovato un pezzo di me, e questo mi fa star bene. Ho stabilito con loro dei contratti non scritti, ho intessuto una rete fatta di fiducia e di lealtà reciproca. Li ho ascoltati. Mi hanno dato un po’ della loro vita e mi hanno permesso di costruire delle storie”. Le loro storie? “Sì, ma non solo. Il mio cinema nasce da un bisogno di partecipazione. Perciò quelle, alla fine del percorso sono anche mie storie, perché lì ci è finita la complessità delle mie emozioni”.
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