A lezione di migrazioni

A scuola si può – e si deve – parlare di immigrazione

Dopo il caso Friuli, in cui alcuni assessori hanno sollecitato la Sovranintendenza scolastica per contestare che in una scuola si tenesse la testimonianza di alcuni migranti, abbiamo interpellato il coordinatore del progetto "Con altri occhi", che da anni porta fra i banchi - dalle elementari alle superiori - le testimonianze dei protagonisti. Ecco il suo racconto

di Daniele Biella

L’autore dell’articolo è coordinatore del progetto “Con altri occhi”, giornalista, scrittore e ricercatore specializzato sulle migrazioni forzate, tema che segue dai primi anni Duemila in poi. Collaboratore di VITA ha scritto le tre edizioni della ricerca Nascosti in piena vista di Save the Children, dedicata al passaggio nelle frontiere a nord e sud Italia dei minori stranieri non accompagnati, e il suo ultimo libro è proprio “Con altri occhi. Viaggio alla scoperta delle migrazioni”. Ha partecipato, scrivendo reportage, a uno degli ultimi viaggi a Kiev del Movimento europeo di azione nonviolenta- Mean.

«Spero in un futuro migliore e vorrei contribuire». Nelle migliaia di commenti a caldo – scritti su un foglietto con la possibilità dell’anonimato – ricevuti nei sette anni di attività del progetto “Con altri occhi” a parlare di migrazioni forzate con gli alunni di scuole primarie e secondarie, raramente se ne trovano di pietistici o buonisti. Perché i ragazzi che ho di fronte, come potrebbe confermare qualsiasi formatore scolastico a cominciare dagli stessi docenti, sono allergici alle risposte scontate. Sono veri, e vera deve essere l’interazione con loro di chi li va a trovare in classe. Se sono annoiati, non partecipano. Se hanno altri pensieri in testa, lo vedi. Se tratti temi che li attraggono, con linguaggio idoneo e adatto all’età, rispondono.

L’immigrazione è uno di questi temi: se arriva un rifugiato tra i banchi, non gli mettono l’etichetta: per loro, prima di tutto, è una persona. Sfortunato sì, soprattutto se ha madrepatria e affetti lontani, ma non “poverino”. È una persona come loro, giusto un po’ più grande. La cui storia, per essere ascoltata davvero, deve fare breccia nel loro mondo già pieno di pensieri, ansie, dubbi adolescenziali ma anche di voglia di leggerezza e novità. Per questo mi viene subito da sgomberare paure ideologiche: parlare correttamente di migrazioni forzate nelle aule è tutt’altro che fare “immigrazionismo”.

Venire in classe per credere. Lo consiglio spesso a politici e personale istituzionale di ogni livello, che incontro nel mio lavoro giornalistico. In classe, infatti, si fa innanzitutto chiarezza: si risponde a ogni loro domanda sul tema – certo, chi si rivolge loro deve essere esperto della materia, che sia un giornalista, un membro di un’associazione o di un’istituzione – si danno le giuste definizioni di parole chiave (profugo, richiedente asilo, rifugiato, ma anche immigrazione clandestina, traffico di esseri umani), i contesti legislativi italiani ed europei, e ogni informazione utile a entrare nella complessità del fenomeno.

L’aggiunta di brevi ma efficaci giochi di ruolo porta poi in aula un elemento imprescindibile: l’empatia. Intesa come capacità di mettersi nei panni dell’altro (Con altri occhi, appunto) rimanendo però se stessi, per conservare la lucidità di ragionamento necessaria. È l’empatia che rende efficace l’incontro di ragazze e ragazzi con il diverso, in questo caso rappresentato dalla persona migrante che racconta, per esempio, dei pericoli del deserto del Sahara, della disumanità dei trafficanti, del buio in mare con il gommone rotto. Ma che fa anche capire loro come siano valori fondamentali il rispetto della famiglia, degli altri e delle regole di convivenza. Valori che non cadono nella retorica, anzi la superano di gran passo, affrontando anche argomenti delicati. L’occhio del formatore – che nell’offrire elementi di valutazione deve conservare l’onestà intellettuale – rimane vigile sulle reazioni degli studenti, anche quando fa incontrare loro la persona rifugiata: nell’incontro si può passare dall’indignazione allo stupore, dalla preoccupazione al sollievo. «Perché sei venuto in Italia?», «Che sport ti piacciono?», «Dove è ora la tua famiglia?», «Quante lingue parli?» e «Qual è stato il pericolo più grande del tuo viaggio?», possono essere infatti domande consequenziali, e alternare momenti più leggeri ad altri più intensi risulta essere quello che fa mantenere alta l’attenzione collettiva.


Due esempi di argomenti delicati? Primo, la clandestinità. Ovvero il viaggiare o rimanere in un territorio senza documenti in regola. Condizione sbagliata e problematica, per l’individuo e per la società. Superata poi con l’ottenimento della protezione internazionale, se va bene. Ma ancora oggi presente di pari passo con l’assurda, quotidiana pericolosità dei viaggi “di nascosto” nelle frontiere di mare e di terra, che di fatto foraggiano il traffico illecito in mancanza di efficaci regole politiche internazionali. Secondo, l’accoglienza. Che per essere funzionante e funzionale, dal punto di vista pratico, rifiuta la polarizzazione tra accoglienza indiscriminata da una parte e negata dall’altra. «Per me accogliere significa fare stare bene chi arriva ma solo se sto bene anch’io», ha scritto un ragazzo a fine incontro. Il più delle volte sono gli stessi alunni a portare esempi della loro quotidianità e dei loro vissuti. Il vicino di banco, oggi, può essere ucraino in fuga dalla guerra o italiano di origini ghanesi, calabrese con il bisnonno emigrato nelle Americhe o ragazza di seconda generazione con il papà che ha attraversato il mare tra l’Albania e la Puglia con il barcone. Ancora, il compagno di squadra può fare il Ramadan e frequentare l’oratorio, parlare tre o quattro lingue a undici anni, ma anche non potere andare a fare il torneo o in gita con il resto del gruppo perché, anche se nato in Italia, non ha ancora la cittadinanza.

Ognuna di queste occasioni è spunto per un confronto, un dialogo franco, senza polemiche. È in questo momento che gli studenti danno il meglio di sé, con frequenti interventi, spesso anche da parte dei più vivaci o più “difficili”, dibattendo con estremo rispetto delle posizioni altrui. Irrealistico? No, dal nostro modesto osservatorio, succede SEMPRE così.

Si può andare, quindi, nelle scuole a parlare di immigrazione. Lo si deve fare bene, nel rispetto delle persone così come delle istituzioni. Partendo dal togliere di mezzo l’ideologia e la retorica ma lasciando accesa la luce dello spirito critico. Si scopre così che, messi nelle condizioni di comprendere quello che accade, quando i ragazzi a scuola respirano la sospensione del “giudizio” dell’adulto, si aprono senza remore. E le argomentazioni sono a volte così profonde da lasciare senza parole. Certo, i casi di cronaca ci riporteranno ancora casi di disagio giovanile irrispettoso e a volte violento. Ma la sensazione è proprio quella che, con gli strumenti opportuni, le nuove generazioni possano davvero migliorare il mondo. «I grandi ci parlano di Pace ma le guerre sono in aumento, come la mettiamo?». Ricordo gli occhi penetranti di un ragazzo di prima media al rivolgermi queste parole. Li ricordo, e non li voglio dimenticare.

Promosso da Aeris Cooperativa Sociale, Con altri occhi (attivo in particolare in Lombardia ma aperto anche agli altri territori) è dedicato agli alunni dalla quarta primaria alla quinta secondaria di secondo grado. Nell’attuale anno scolastico hanno aderito poco meno di 200 classi, ovvero circa 6mila alunni con almeno 400 professori.

In apertura, nella foto dell’Agenzia LaPresse, resti di un naufragio sulla spiaggia di Lampedusa

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