Formazione

Ridate l’Africa agli africani

Non c'è sviluppo senza coinvolgimentodiretto, responsabilità, partecipazione. L'hanno capito le esperienze più efficaci. Come quelle delle Cbo, di Koinonia e Amref.

di Redazione

L?Africa agli africani. In Kenya la nuova cooperazione allo sviluppo parte da qui. Merito di una società civile vivace come nessun?altra nel continente. Che ha preparato con una capillare educazione civica di base la svolta democratica del Paese. Un laboratorio sociale che è diventato un punto di riferimento per molti Paesi africani. Meglio stare ?un po? peggio?«Nulla riguardo noi senza di noi» è il motto delle Cbo, Community based organization. Non si tratta di ong (organizzazioni non governative), ma di associazioni nate direttamente dalle comunità locali. In Kenya il modello delle Cbo ha funzionato con i ragazzi di strada, quelli che si fanno di coca o di colla in giro per le baraccopoli di Nairobi. I metodi di molte Cbo kenyane all?inizio hanno fatto rizzare i capelli in testa a molti cooperanti. La Cbo con sede a Nyahururu, 150 chilometri da Nairobi, ad esempio, conta 600 volontari e più di 6mila sostenitori, tutti kenyoti. I metodi educativi sono diversi da quelli tradizionali, a cominciare dalle strutture di accoglienza. Lì i ragazzi devono stare meglio rispetto alla strada, ma ?un po? peggio? che in una capanna familiare. Il motivo? Le ong straniere mettono a disposizione strutture migliori rispetto agli standard di vita kenyani. E così capita che da queste case i ragazzi non se ne vogliano più andare. Secondo punto del metodo: i ragazzi devono imparare a rendersi utili lavorando per rientrare nella società e nella famiglia che li accoglierà. «Only through community» è un altro dei principi cardine della Saint Martin. In Kenya è la comunità a sostenere l?individuo, e così avviene anche nelle Cbo. Per i ragazzi di strada dopo l?accoglienza c?è l?inserimento in una nuova famiglia. Ma a determinare il successo di questo modello di recupero è il coordinamento di più famiglie, che insieme si prendono in carico uno stesso ragazzo. Chi paga il suo vitto quotidiano, chi la scuola, chi le scarpe per andarci. Un network per la pace Michael Ochieng, insieme a un gruppo di giovani di Koinonia, la comunità fondata da padre Kizito Sesana, ha creato alcuni anni fa a Nairobi l?associazione Africa Peace Point, un network che lavora per la pace, la riconciliazione e i diritti umani con le comunità, nei quartieri fra la gente comune. «Si tratta di rendere le persone coscienti degli strumenti che hanno a disposizione per risolvere i problemi», afferma Ochieng. Africa Peace Point fa parte di una rete di associazioni che organizzano seminari di educazione alla pace in scuole e università e, attraverso l?associazione Amani People?s Theatre, utilizza il teatro per risolvere i conflitti. «Il nuovo corso del Kenya ha suscitato grandi speranze», dice Ochieng. «Ma la pace è uno stile di vita. Bisogna lavorarci ogni giorno». I campioni delle baraccopoli Il Mathare United è la squadra rivelazione del campionato kenyano. Venuta su dal nulla, dalle baraccopoli di Nairobi, ha conquistato la simpatia del pubblico e l?attenzione dei club stranieri. L?ingaggio dei giocatori dipende dal numero di presenze, dalle vittorie e… dai servizi sociali svolti all?interno della comunità. Ce ne parla Giulio Cederna, portavoce di Amref, un?organizzazione sanitaria che ha fatto il percorso inverso rispetto a quello solito delle ong. È nata a Nairobi. E solo dopo, alcuni sostenitori hanno aperto una sede in Italia. Tuttora Amref è per il 95% africana. «Nella baraccopoli di Mathare, a Nairobi, l?associazione sportiva Mysa coinvolge 15mila giovani e mille squadre di calcio, fra cui il Mathare United. È il riscatto sociale attraverso lo sport». Lo scorso anno l?associazione ha organizzato un torneo nel campo profughi di Kakuma, utilizzando il calcio come strumento di distensione fra le etnie. Un progetto che l?ha candidata al Nobel per la pace.


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