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Volontari italiani in Cecenia: una testimonianza

Fabrizio Bettini, volontario dell'Operazione Colomba-Ass. Papa Giovanni XXIII, è da poco rientrato dalla Cecenia. Ecco la sua testimonianza

di Redazione

Siamo i volontari dell’Operazione Colomba che è parte dell’ Associazione Papa Giovanni XXIII e dal ‘92 cerchiamo di stare in mezzo alle vittime delle guerre dalla ex Jugoslavia al Chiapas da Timor Est al Congo. Non siamo una grande associazione e non portiamo aiuti umanitari, portiamo semplicemente noi stessi cercando di stare in modo semplice in mezzo alle vittime della guerra, cerchiamo di creare rapporti con le persone in modo da poter dare un’alternativa all’odio, cerchiamo di risolvere i piccoli problemi di tutti i giorni, cerchiamo di vivere il quotidiano per provare a creare un alternativa futura. Entrare nella guerra in Caucaso è, però, difficile e il metodo diretto che abbiamo usato finora qui non funziona. Noi bravi pacifisti occidentali dobbiamo fare un bagno di umiltà e entrare in questa guerra da lontano. Queste premesse ci hanno portato a fare dei passi indietro e ci hanno portato, nel gennaio 2001, a ricominciare da Volgograd. Volgograd fu Stalingrado ed è una città di un milione e mezzo di abitanti, circa mille chilometri a nord del Caucaso, ma rapportata alla vastità della Russia è una città minore. Qui, l’Associazione Papa Giovanni XXIII è presente da otto anni e le attività sviluppate sono numerose. C’è una casa famiglia, una comunità terapeutica e numerose attività con i senza tetto o i poveri in genere. Noi siamo qui per cercare di capire meglio la vita e la mentalità della gente e per imparare alcuni rudimenti di lingua russa. A Volgograd incontriamo numerose persone e associazioni tutti ci parlano dei problemi dei profughi che fin lì sono arrivati, dei problemi di chi va a combattere e torna a casa invalido; un poliziotto ci racconta la sua avventura cecena fatta di rastrellamenti e di conflitti a fuoco, aggiunge anche degli interessi economici che fanno si che la guerra continui. Anche in questa guerra sotto la facciata patriottica di difesa dei confini da una parte e di richiesta di indipendenza e libertà dall’altra parte si nascondono gli interessi contrapposti di predominio su un’area che per numerose ragioni è strategica. C’è anche chi ci parla di Putin, il presidente russo, come l’uomo forte, quello che ci voleva dopo Eltsin. Ci dicono anche che da pochi giorni, su volontà presidenziale, è stata abolita una legge che risaliva alla glasnost gorbacioviana che impediva le denunce anonime. Può sembrare una sciocchezza ma può essere un ritorno alla politica della delazione di sovietica memoria. Tutte queste voci e opinioni ci indirizzano verso una zona dove pare passino e si fermino molti profughi provenienti dalle zone infiammate dalla guerra nel sud del Caucaso. Questa regione, saldamente in mano russa, si chiama Stavropol, ma fino a dieci anni fa portava il nome di Togliatti. Abbiamo deciso di fare una breve presenza esplorativa proprio in quell’area, e dopo 20 ore di treno siamo giunti a Pitigorsk, a pochi km di distanza dalle frontiere con Kabardino Balkaria, Inguscezia e Cecenia, dove avevamo un contatto con il pope locale. Abbiamo vissuto due giorni in mezzo ai profughi di uno dei pochi campi. I profughi nella regione sono circa 80 mila registrati ufficialmente, mentre si stima che la cifra reale sia attorno ai 200-250 mila. Non ci sono campi profughi, la maggior parte sono presso parenti, in affitto, o in sistemazioni precarie. Nella regione l’80 per cento dei profughi sono russi, il resto sono ceceni, armeni, azerbaigiani etc. Non sappiamo ancora cosa potremmo fare per questa gente; siamo convinti che lo starci in mezzo, il favorire il dialogo, permettere a queste persone di sfogarsi sia una cosa concreta, evidente, ma da queste parti non possiamo essere quello che siamo stati nei Balcani o in Messico. Come sempre i volti e le voci di queste persone si scolpiscono nella memoria ma questa volta, come mi era accaduto in Inguscetia, la frustrazione é maggiore. Capiamo l’importanza di stare in questa zona, anche se sembra un posto tranquillo, il conflitto é vicino, oltre alla presenza dei profughi, una settimana dopo la nostra visita sono scoppiate tre auto bomba nella regione provocando trenta morti e circa un centinaio di feriti. Non riusciamo ancora a trovare il modo di aiutare e di stare con questa gente. Ora siamo tornati in Italia alle nostre comode case ai nostri supermercati luccicanti ma il nostro pensiero torna a quelle baracche, a quelle tende e a quei vagoni dove non ricordo più se vivono russi o ceceni quello che ricordo chiaramente che là vivono le vittime di una guerra ingiusta e questo non ci deve dar pace, ci deve impegnare per cercare di essere in mezzo ai poveri delle guerre per essere una presenza piccola ma che sia capace di fare le piccole cose che cambiano il mondo. Info: Operazione Colomba, tel. 0541.751498


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