Europee, i candidati sociali
Luca Jahier (Pd): «Un’agenda della speranza per l’Europa»
Dopo una lunga militanza nella cooperazione e nell'associazionismo, questo torinese classe 1962 s'è impegnato per anni nel Comitato economico e sociale europeo - Cese, che ha anche presieduto per un biennio. Ora il partito della Schlein lo ha candidato nella Circoscrizione Nord-Ovest. Lo abbiamo incontrato
Il libro che ha dato alle stampe di recente – Fare l’Europa per fare la pace (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli) – compendia un impegno europeista militato e non declamato. Luca Jahier, candidato dal Pd nella Circoscrizione Nord-Ovest, non ha bisogno di inventarsi narrazioni: a Bruxelles c’è stato per lunghi anni, al Comitato economico e sociale europeo- Cese, che ha anche presieduto in anni difficili (2018-2020). Ed era europeista quando stava nella cooperazione internazionale, fino a presiedere la Focsiv, e nelle Acli.
Jahier, in Europa per farla, cioè fare la pace, per parafrasare il suo libro? Un’ulteriore testimonianza?
Credo che occorra andare a Strasburgo ma non solo per dare una testimonianza. Questa legislatura sarà assolutamente cruciale.
Si dice così di tutte le legislature, purtroppo.
Sì è vero ma il tempo che stiamo vivendo, con gli sconvolgimenti geopolitici e il fatto di dovere comunque continuare ad accelerare l’agenda di trasformazione industriale, sociale, economica dell’Europa, rende tutto assolutamente urgente. Questa che si chiude è una legislatura di misure straordinarie: dal Green Deal, che è stato il più grande piano trasformativo dal tempo del mercato unico, a tutta la legislazione che è stata presentata e approvata, malgrado il Covid, malgrado la crisi dell’energia, malgrado la guerra. Un lavoro pari a quello del mercato unico ai tempi di Jacques Delors, che non erano certamente tempi di guerra e di distruzione. La prossima legislatura sarà cruciale perché le cose da fare saranno enormi.
Ricordiamole.
C’è da far prendere sul serio l’accelerazione dell’agenda del Green Deal e l’accompagnamento delle relative misure, perché tutti siano a bordo e quindi le transizioni non taglino fuori parte di lavoratori, di imprese e di territori che faranno più fatica a fare il salto. E quindi vanno accompagnate. Bisognerà realizzare l’Unione europea della Difesa.
Ecco, come farlo, Jahier?
Bisognerà dotarsi di strumenti capaci di aumentare enormemente i capitali disponibili di parte pubblica, con la revisione del bilancio europeo, per struttura e ampiezza, rifacendo un nuovo Next generation Eu, magari permanente. E anche attivare i finanziamenti privati, sia attraverso la Banca europea degli investimenti – Bei, sia attraverso nuove integrazioni nel mercato europeo dei capitali, che è troppo disunito e frammentato, per cui i capitali privati vanno altrove.
Di cosa c’è bisogno?
Di forza politica notevole e di grandissima capacità di spinta. C’è bisogno di persone che abbiano queste competenze, questa passione, questa visione e anche questo desiderio di andare avanti, rispetto a quelli che invece vorrebbero tornare indietro, dicendo è tutto un errore da cancellare, quelli che vorrebbero adesso schiacciare il freno, perché si è già fatto troppo.
Invece, c’è da accelerare, mi par di capire
Senza dubbio, perché abbiamo davanti a noi sfide sistemiche ancora più imponenti. Emmanuel Macron lo ha detto in modo molto brutale: «L’Europa immortale può morire». Io l’ho detto in modo più moderato: abbiamo bisogno di un’agenda della speranza, impegnativa, per evitare il collasso dell’Europa.
Se l’Europa collassa, non avremo più un gigantesco progetto di pace e di stabilità, di mercati aperti, di solidarietà – ricordiamoci che è il primo donatore in cooperazione del mondo.
Luca Jahier
Che cosa significherebbe un collasso europeo?
Non avremo più un gigantesco progetto di pace e di stabilità, di mercati aperti, di solidarietà – ricordiamoci che l’Europa è il primo donatore in cooperazione del mondo. Quindi abbiamo bisogno di rinforzare le gambe, di rinforzare l’unità e anche di mettere mano ai trattati. Che non sarà un esercizio semplice.
Perché?
Perché c’è da abolire il potere di veto in materie rilevanti: dalla politica estera, se vogliamo contare davvero nel complesso gioco distruttivo del mondo di oggi, alla difesa, al fisco, alla capacità di mettere titoli di debito che vada a fare, in modo strutturale, quello che abbiamo fatto in modo occasionale nell’emergenza di questi anni passati.
Ecco VITA di maggio, che è appena uscito, titola: Un’Europa da rifare. e ha focalizzato l’attenzione su alcuni temi: Piano per l’economia sociale, Green Deal, migrazioni, Child guarantee, Corpi di pace. Mi piacerebbe sapere che cosa pensa di questi temi.
Cominciamo dall’economia sociale. C’era stata la proclamazione del pilastro sociale alcuni anni fa, sotto Claude Juncker. Oggi c’è un piano d’azione per l’economia, estremamente impegnativo.
Manca qualcosa?
Alcune componenti legislative sono fatte, altre saranno da portare avanti e poi da applicare. Però è stata una grande conquista che si collega anche al fatto che, per la prima volta, dentro la strategia industriale dell’Unione, uno dei 14 cluster della strategia stessa, è quello delle imprese sociali. Quindi c’è un’apertura che non c’era mai stata prima.
E adesso?
Adesso questo patrimonio non va lasciato congelato o messo nei cassetti, ma si tratta di portarlo decisamente avanti nella prossima legislatura. Anche perché il rafforzamento di questa doppia gamba, il pilastro sociale da una parte e il piano d’azione sull’economia sociale dall’altra, ci servono come strumenti principe per accompagnare le transizioni di questa rivoluzione verde, digitale, di sicurezza energetica e di nuova sovranità industriale strategica, che è quello che va fatto.
Contiguo, c’è il tema della responsabilità di impresa: la direttiva europea sulla rendicontazione, la Csrd. Su questa la Germania, che ne era stata il propulsore, alla fine ha frenato, per cui c’è stato bisogno di trattare al Coreper. Poi, in Italia, Confindustria, Abi, Ania e altri si sono appellati al ministro Giorgetti, per smussarne l’apparato sanzionatorio nella fase di recepimento.
L’atteggiamento tedesco fa purtroppo parte delle ultime pulsioni di questa fase finale di legislatura, in cui il Ppe ha giocato un po’ alla politica dei due forni: per fare alleanze con le forze più conservatrici o di destra del Parlamento e per frenare. Nella prossima legislatura sarà dirimente avere una grossa componente del gruppo socialista, perché la maggioranza del Parlamento non sarà diversa da quella attuale.
Queste frenate la preoccupano?
Probabilmente su alcune cose si sono fatti anche errori. Credo che nella direttiva che lei citava, ci fossero anche alcune questioni probabilmente imprecise e che andavano corrette. A me non spaventa il fatto che ci siano anche dei momenti di revisione e di adattamento – anche perché la trasformazione è così impressionante che, evidentemente, non puoi avere nemici su tutti i fronti. Il problema è non perdere la direzione e procedere. Non so in che misura riusciremo a riprendere questi temi nella prossima legislatura e ci si può anche arrestare su un pezzo, purché non siano tutti, altrimenti la rotta va completamente fuori.
E questo non ce lo possiamo permettere…
Sì e per due motivi. Perché un’Europa che sta perdendo competitività, che vede la sua quota sul Pil mondiale ridursi – eravamo al 25% a inizio secolo e siamo al 17 – è un’Europa che invecchia e che perderà 41 milioni di abitanti entro la fine del secolo. E che ha bisogno di essere nel treno di testa delle trasformazioni per continuare ad avere un ruolo di leader e di protagonista dell’economia mondiale. Sennò…
Sennò?
Sennò nel treno di coda saremmo rapidamente scalzati da altri. Mettendo a rischio una delle nostre grandi e storiche conquiste, diventata anche vantaggio competitivo: la nostra potenza normativa.
Spieghiamolo bene.
Mi riferisco alla capacità dell’Europa di stabilire sistemi normativi che, attraverso il suo ruolo e il suo peso nelle relazioni commerciali internazionali, è diventata di fatto un modello per altri. Come nel caso dell’intelligenza artificiale.
L’Ai act, contestato da alcuni.
Dalle grandi multinazionali del digitale, fondamentalmente americane. Però oggi gli Stati Uniti, ma lo stesso Giappone, prendono a modello questa legislazione. Quindi se tu sei quello che anticipa, che parte per primo, anche magari correggendo qualche errore o qualche eccesso. E questo è un vantaggio competitivo.
Ed è stato un vantaggio reale?
Basta vedere i risultati dell’ultima Cop a Dubai: la diplomazia climatica dell’Unione europea ha stravinto nel riuscire a conquistare altri perché è partita per prima, perché ha stabilito parametri per prima. Gli altri spesso copiano o ripetono quanto noi abbiamo già messo a punto. Questo è sicuramente un vantaggio competitivo dell’Europa rispetto ad altri svantaggi, come il frazionamento del nostro mercato dei capitali o il mancato completamento del mercato interno, come dice Enrico Letta, nelle proposte del suo recente rapporto.
Parliamo di migrazioni, Jahier, dove siamo stati meno brillanti.
Abbiamo fatto dei tremendi passi indietro, è vero. Questo la legislatura si è chiusa trovando una un accordo di un voto e quindi una ratifica dell’accordo tra Consiglio e Parlamento. C’è questo pacchetto di nove provvedimenti sul Patto per le migrazioni. Abbiamo fatto un passo avanti, anche se minimo, e tre giganteschi passi indietro.
Partiamo dal passo in avanti.
Avere stabilito almeno norme comuni su come si debbono gestire le pratiche di ingresso e quelle di esame, le domande di asilo, il modo di trattare immigrati anche irregolari. Quindi, perlomeno ad oggi, non abbiamo più 10mila modi, ma c’è un unico parametro.
E i passi indietro?
Ci sono grandissimi rischi di deroga ai diritti fondamentali di donne, famiglie, bambini. Ci sono, secondo me, molte questioni che, di fatto, non saranno sostenibili, efficaci, attraverso la logica degli esami rapidi, e quindi molto sommari, delle domande senza possibilità di ricorso, quindi ledendo i diritti fondamentali.
Cosa manca?
Manca tutta la parte dell’investimento sull’integrazione. E poi soprattutto, come dice il presidente Mattarella, non affrontiamo il tema reale di un’Europa che invecchia e che ha una domanda di lavoro crescente alla quale non trova corrispondenza mentre, dall’altra parte, abbiamo una crescita di crisi, per la guerra, i conflitti e i mutamenti climatica. Siamo già 100 milioni di profughi nel mondo e con la prospettiva che, per il cambiamento climatico, possono raggiungere i 400. Quanto abbiamo approvato sulle migrazioni non costruisce strumenti condivisibili col resto del mondo, strumenti di governance di questo processo: guarda semplicemente all’aspetto securitario, della protezione delle frontiere – che è da considerare, intendiamoci – ma è solo uno degli aspetti. Ce ne sono molti altri che sono completamente disattesi.
Il problema resta, però.
Il problema c’è e rimane e se non troveremo rapidamente un modo più equilibrato e più lungimirante di gestire insieme questa partita e gestirla con i nostri partner frontalieri, il Mediterraneo e l’Africa, rimarrà come una miccia esplosiva. Senza dimenticare gli squilibri di età, di popolazione, di trend demografici, di andamento dei mercati del lavoro e delle dinamiche economiche. Chi sarà eletto, dovrà aver presente questa sfida e dovrà continuare a richiamarla, tenendo acceso un lume perché quando ci siano le condizioni politiche si possa rimettere mano a questo dossier.
Ecco, e da ultimo ma non per ultimo ovviamente, la pace. Si parla tanto di Difesa europea ma rischiamo di scordarci che c’è anche una vocazione alla pace che, tra l’altro, ha preso la forma di una risoluzione approvata dal Parlmento: i Corpi civili.
Oggi l’Europa spende molto in difesa, sommando i 27. E le spese sono aumentate del 90% in questi due anni. Spendiamo però in modo talmente scoordinato, improduttivo e dispersivo, con un livello di efficacia assolutamente nullo. Oggi noi spendiamo in difesa tre volte quello che spende la Russia, l’equivalente della Cina e il 40% degli Stati Uniti. Ma il livello di efficacia dei 27 eserciti non è neanche pari al 10 % di quello statunitense. E purtroppo l’ombrello americano si sta riducendo.
Se vincerà Trump, si chiude…
Sarà molto più brutale ma anche se vincerà Joe Biden sarà ridotto.
E quindi?
Dobbiamo fare oggi quello che non abbiamo fatto nel 1954 quando, per colpa della Francia, non ratificammo il trattato della Comunità europea di difesa che, in fondo, diceva mettere insieme gli eserciti perché non si facesse più la guerra. E poi osserviamo cosa accade: la Germania ha messo 100 miliardi per aumentare la sua spesa militare ma li ha messi su commesse nazionali. Invece ci deve essere una dimensione europea. È arrivato il momento di affrontarlo seriamente. Così come dovremmo affrontare seriamente il rispetto dell’articolo delle Nazioni Unite che richiama ogni Paese a farsi carico della proprio difesa. E vengo ai Corpi di pace.
Che ne facciamo?
Bisogna anche finalmente dare corpo a questa idea, questo sogno antico di Alex Langer e di altri, di avere anche dei corpi civili per la pace, che possano svolgere un lavoro preventivo dei conflitti, ma anche ricostruttivo, quando i conflitti ormai si sono scatenati e bisogna realizzare la riconciliazione. Per questo, con convinzione ho firmato l’appello del Mean.
La foto in apertura di Francesco Moro per LaPresse, quella al centro di Paolo Giandotti dell’Ufficio Stampa del Quirinale.
Questa intervista fa parte di una serie sui candidati sociali alle elezioni europee, di cui sono già uscite quelle a Humberto Insolera (Pd), a Rita Bernardini (SuE). a Bruno Molea (FI), a Ugo Biggeri (M5s), a Antonio Mumolo (Pd).
Abbiamo dedicato il numero di VITA magazine “L’Europa da rifare” ai più rilevanti temi sociali da approfondire in vista delle elezioni europee del prossimo giugno. Uno dei capitoli è dedicato ai più giovani, con le sei sfide perché “Next Gen” non sia solo uno slogan. Se sei abbonata o abbonato a VITA puoi leggerlo subito da qui. E grazie per il supporto che ci dai. Se vuoi leggere il magazine, ricevere i prossimi numeri e accedere a contenuti e funzionalità dedicate, abbonati qui.
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