Consumatori
Siamo (anche) ciò che compriamo: il bilancio di trent’anni di consumo critico
Il primo Gruppo di acquisto solidale è stato fondato nel 1994 a Fidenza, in provincia di Parma. Un modello basato sulle relazioni e sulla fiducia, in cui il rapporto tra produttore e consumatore è fondato sullo scambio e il rispetto reciproco. Una realtà in evoluzione, per adattarsi alle nuove sfide che il mondo moderno pone
Quello che si porta sulla propria tavola – e ciò che si acquista in generale – è anche una scelta politica. Lo sanno bene gli aderenti ai Gruppi di acquisto solidale – Gas, gruppi auto-organizzati di cittadini che, insieme, decidono di adottare i principi di consumo critico e di comprare direttamente dai produttori, senza passare dalla grande distribuzione organizzata dei supermercati. Non solo si tratta di un’alternativa possibile, ma anche di un modello longevo, che ha generato nel corso del tempo moltissime relazioni positive di reciprocità, di scambio e di fiducia. Ricorre quest’anno il trentennale del primo Gas, quello di Fidenza, in provincia di Parma, che ha dato avvio a un processo di consapevolezza ed evoluzione che non si è ancora formato; Mauro Serventi, uno dei fondatori, ha parlato con noi di alcune delle caratteristiche di questo modello di consumo critico e delle sue prospettive future.
Serventi, com’è nata l’idea di fondare il primo Gas?
È nata più di 30 anni fa, in un contesto in cui l’accesso a prodotti che fossero certificati o che comunque provenissero da fonti sicure, senza trattamenti e con caratteristiche di gestione della produzione controllate, non era possibile. Non c’era nessuno strumento che permettesse a un consumatore normale di recarsi in qualche negozio e sapere di acquistare alimenti che provenissero da un ambiente non inquinato e senza sfruttamento del lavoro. Si è quindi formato un gruppo che ha provveduto autonomamente alla ricerca di produttori – fin dove possibile del territorio – che avessero un insieme di caratteristiche che rendessero quello che vendevano salubre, sostenibile ed etico. Siamo partiti con delle domande e delle attese, poi il processo è stato definito insieme a questi produttori: è nato un rapporto che potenziava il clima di fiducia, che noi abbiamo chiamato “attivazione del canale fiduciario”. È così che il gruppo è riuscito a svilupparsi e ad ampliare moltissimo la propria base di prodotti e servizi, senza darsi delle strutture amministrative e di controllo.
Da chi era costituito il gruppo di partenza?
La maggioranza dei soggetti erano famiglie giovani con figli, che cominciavano a porsi delle domande su quali fossero i modi migliori per alimentarsi. In maniera del tutto autonoma queste famiglie hanno iniziato a organizzarsi, definendo lungo il percorso alcuni parametri. Così sono nate le “tre P”: prodotto, processo e progetto.
In che senso?
Si è voluto definire il significato della parola “prodotto”. Quali sono le sue caratteristiche? Quali gli elementi che ne definiscono la qualità? Si sono sviluppati dei concetti che, in alcuni casi, si contrapponevano alle definizioni del mercato, in cui prevale l’aspetto esterno, merceologico, la modalità di presentazione. Per noi qualità, invece, significa che un cibo risponde ai bisogni e alle caratteristiche per il quale viene mangiato. Poi c’è la definizione e l’individuazione dei processi che hanno portato un prodotto sul mio tavolo, da quello di produzione a quello di vendita; per noi quest’ultima avviene di solito in maniera diretta, senza intermediari. L’ultima “P” è quella di “progetto”, che aveva l’obiettivo di stabilire dei canali di progettazione condivisa tra produttori e consumatori. È così che è venuta a definirsi pian piano una figura che oggi chiameremmo prosumer e che è conosciuta e utilizzata grazie al tema dell’energia.
Come avete fatto per la definizione del prezzo?
Non sono mai nati problemi relativi al prezzo, perché è sempre stato definito in relazione a una serie di parametri, in un clima collaborativo e di fiducia reciproca. Questo permetteva da una parte all’agricoltore – o al produttore in genere – di non avere problemi rispetto alle consegne, in caso di variazioni in itinere dovute a crisi climatiche, per esempio, dall’altra dava la possibilità al consumatore di accedere al cibo in sicurezza e di capire quello che mangiava. «Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei», è il proverbio.
Vi sareste aspettati che il vostro diventasse un modello così influente e replicato?
Assolutamente no. Non abbiamo fatto niente perché ciò avvenisse, anche se abbiamo sempre accolto con estrema simpatia le iniziative di altri, che sono sempre avvenute in maniera autonoma, senza che noi facessimo promozione. Però ci siamo dati da fare per generare e ampliare un concetto di intelligenza collettiva e di benevolenza reciproca condivisa tra produttori e consumatori, che di solito invece vengono invitati dal mercato a collocarsi su un piano quasi di scontro. Le relazioni che si sono create hanno avuto un impatto positivo sulla vita di ciascuno di noi, per cui abbiamo continuato a incontrarci di anno in anno molto spontaneamente in tanti luoghi in Italia, dove qualcuno organizzava un’ospitalità diffusa, per raccontarci come ciascuno andava avanti senza produrre norme o regole, ma sfruttando un clima in cui si vedeva l’affermarsi di uno stile di vita – più che di consumo – che pone al centro i rapporti, la fiducia, la sobrietà e la felicità.
Il modello dei Gas è valido ancora oggi, anche se ci sono più strumenti di certificazione anche per i prodotti del supermercato?
I tempi sono del tutto cambiati, ma non è cambiato quello di cui parlavo poco fa: non basta comprare cibo certificato perché si generino dinamiche di produzione e di consumo che creino impatti positivi. Ora prodotti certificati si trovano anche al supermercato, ma questo non significa creare relazioni e consapevolezza del flusso del cibo. Che poi è quello di cui c’è bisogno per fare in modo che ci sia equilibrio e benessere tra produttori e consumatori e per mettere in atto modelli di società che siano appaganti. Tuttavia c’è bisogno di un’evoluzione: non si può ripetere esattamente quello che si faceva trent’anni fa; qua a Parma ci stiamo ragionando sopra, però riteniamo che la creazione delle relazioni e del canale fiduciario sia sempre un elemento positivo per la società. Ne abbiamo bisogno, in un momento in cui, tra crisi globali e climatiche, stiamo tutti iniziando a renderci conto della necessità di generare possibilità di collaborazione rispetto alle situazioni di contrasto. L’unica cosa che possiamo fare è starci dentro assieme: non è una frase teorico-buonista, è il frutto di progetti di vita e di pratica quotidiana. Per questo stiamo prendendo consapevolezza che il gruppo ha la necessità di cambiare struttura. Non più un gruppo che si organizzi per l’acquisto dei propri alimenti, ma un gruppo che generi nei territori delle dinamiche di produzione e consumo equilibrate, che rispettino il clima, il lavoro e che crei processi economici nuovi e significativi. Oltre al fatto che non è più possibile scappare dalla politica, come gestione della cosa pubblica, che si manifesta in tanti modi; uno di questi è l’animazione della società civile e la collaborazione con le amministrazioni. Qua in Emilia, per esempio, alcuni anni fa abbiamo lavorato molto bene con la Regione per la definizione di una legge sull’economia solidale.
Foto nell’articolo fornite dal Gas di Fidenza
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