Legalità

La graphic novel che racconta l’antimafia delle donne

Partono dalle scelte di vita spesso travagliate che, però, le vedono trovare la loro forza nei valori culturali di legalità trasmessi dalla famiglia. Sono le dieci donne protagoniste della graphic novel curata dalla scrittrice Valeria Scafetta, in collaborazione con Avviso Pubblico. Una narrazione di lotta quotidiana contro la mafia, affidata a donne che hanno lasciato un segno in tutti i luoghi della società civile e delle professioni in cui sono state

di Gilda Sciortino

Nessun eroismo ma solo l’eccezionalità che proviene da un impegno quotidiano contro la sopraffazione e la violenza, segni distintivi della  prepotenza criminale.

Una straordinarietà che sono capaci di mettere in pratica, ma perchè appartiene al loro essere più profondo, le donne, quando sono spinte dalla passione per quello che fanno e, non sempre consapevoli dell’importanza delle loro gesta, stravolgono le vite di chiunque stia attorno a loro.

Arriva, infatti, con tutti questi presupposti ”Donne antimafia”, la graphic novel curata dalla scrittrice e giornalista Valeria Scafetta, esperta di ricerche e saggi nazionali sulla criminalità organizzata, in collaborazione con Giulia Migneco, responsabile della comunicazione di Avviso Pubblico. Di Alma Velletri le illustrazioni che ci accompagnano tra le righe delle storie di dieci figure femminili, il cui impegno quotidiano in territori per nulla facili ci conferma quanto la forza delle donne possa fare la differenza attraverso un impegno, prima di tutto morale, che va oltre l’abito indossato per svolgere il ruolo che hanno nella società. Un progetto che cresce di giorno in giorno con tante tappe al suo attivo, tra cui il recente dono fatto dalla scrittrice dono della sua preziosa opera edita da “BeccoGiallo” alla biblioteca tematica “G. Siani” di Civico Trame, a Lamezia Terme.

«Quest’opera si aggiunge a una già vasta sezione di fumetti e graphic novel all’interno della nostra biblioteca – sottolinea Nuccio Iovene, presidente di Fondazione Trame – arricchendo l’ampia raccolta di libri sulle mafie. Emozionante il momento in cui Valeria Scafetta ha incontrato una parte del nostro staff e dei volontari approfondendo con loro il tema delle potenzialità e della grande diffusione della formula del volume a fumetti con contenuto tratto dal reale e, nel caso specifico, dal tema del ruolo che le donne ricoprono all’interno delle organizzazioni criminali».

La presentazione della graphic novel a Civico Trame

È un viaggio nel mondo di donne contro gli stereotipi che ci vogliono sempre un passo indietro rispetto agli uomini

Valeria Scafetta, curatrice della graphic novel

Storie che colpiscono prima di tutto i giovani in tutte le occasioni in cui questa piccola opera viene presentata nelle scuole. Come quella di Roxana Roman:  “Una donna che non  si è mai arresa”. Proprietaria con il marito Marian del Roxy Bar nella periferia della Capitale, ha avuto il coraggio di ribellarsi. Ha, infatti, denunciato e fatto condannare i tre rappresentanti delle famiglie Casamonica e Di Silvio che avevano aggredito una cliente e Marian, distruggendo in parte il locale, con la pretesa di essere serviti per primi. Ha dimostrato la forza dei propri valori, del lavoro e della giustizia. Non a caso, nel dicembre del 2018 è stata nominata Cavaliere della Repubblica dal Presidente Sergio Mattarella.

«Non hai capito come! Vuoi essere trattato diversamente dagli altri clienti perché sei un Casamonica, non nel nostro bar! Chi non rispetta il nostro lavoro e i nostri clienti, rimane fuori dalla porta, costi quel che costi!», tuonava Roxana. «Nessuno, pure se si chiama Casamonica o Di Silvio, abituato a sottomettere gli altri con la paura e con la violenza, vince contro la mia determinazione, frutto della storia mia e della mia famiglia. Li ho cacciati, denunciati e ho resistito fino alla loro condanna. Lo rifarei mille volte per me stessa, per i miei figli e per i miei genitori. Ho faticato per costruire il Roxy Bar, sono rimasta al mio posto quando i mafiosi volevano mandarmi via, resterò fino a quando decido io, libera e serena».

La prospettiva femminile che intreccia varie dimensioni

«Il quadro è quello di donne che hanno dovuto superare lo stereotipo di essere donne», spiega Valeria Scafetta. «Penso a chi ha intrapreso la carriera in Polizia o in magistratura quando era da poco partita la possibilità di accedere a queste professioni, come per Maria Monteleone, prima donna in magistratura, Angela Altamura e Maria Luisa Pellizzari, che hanno aderito alla riforma del 1981 accedendo a percorsi profesionali di carriera. L’idea era di non  mostrare solo la lotta alle mafie fatta con la divisa e la toga, ma anche attraverso il ruolo e le storie di donne più semplici il cui impegno nel combattere le violenze è piu quotidiano rispetto a quello dell’uomo. Abbiamo voluto abbattere il concetto di eroi ed eroine, persone comuni che hanno fatto percorsi faticosi per ottenere risultati, anche per dimostrare che ci si può impegnare contro le mafie, non per forza rischiando la vita come martiri».

Percorsi di impegno antimafia raccolti come eredità da custodire

Come quella di Luisa Impastato, presidente di “Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato”, a Cinisi.

«Quello che fai: lo fai perché lo vuoi o perché devi? Questa la domanda che, durante uno dei quotidiani confronti con le classi delle scuole che arrivano da noi da tutta Italia, una studentessa, cogliendo forse un velo di stanchezza sul mio viso, mi ha rivolto. «Entrambi, risposi io. Sento il dovere morale di farlo per mia nonna e per Peppino, ed è quello che voglio fare». A guidare il mio percorso è sempre stata l’accoglienza. La gioia più grande è vedere bambine e bambini correre e fermarsi nelle stanze per poi rivolgere le domande più dirette e sincere. Era il 21 marzo dell’anno scorso, ricordo bene lo sguardo vispo, forse persino l’accento romano dell’alunno di una scuola primaria che, fissandomi, ha chiesto: «Ma poi, alla fine, tu avresti voluto conoscerlo Peppino?». «Certo che sì: avrei proprio voluto conoscere Peppino!». In realtà è una domanda che mi pongo inconsciamente da tempo: «Se avessi potuto realmente incontrare mio zio vivo, avrebbe avuto lo stesso peso nella mia vita, dedicata a raccontarne la vita?». La risposta che mi do sempre è coerente con quella fornita al bambino di Roma: “Avrei preferito conoscerlo, che non mi avessero portato via con tanta brutalità la possibilità di condividere insieme i nostri valori e le nostre sfide».

Procede senza tentennamenti Tiziana Ronzio, operatrice sanitaria, che ha deciso di realizzare una serie di opere per riqualificare il suo quartiere di Roma, fondando, nel 2015, l’associazione “Tor più Bella”. Per la sua caparbietà nel voler fare del bene agli altri impegnandosi nel sociale, il capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha voluto nominarla Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.

«L’abbandono progressivo del rispetto delle regole », dice Ronzio, «iniziava a corrispondere a uno strisciante e pericoloso senso di omertà. Me ne accorsi in maniera forte quando mio figlio cominciò a frequentare le scuole: io mi lamentavo perché le strade intorno all’edificio erano sporche o perché mancavano i servizi, ma in pochi mostravano di condividere il mio disappunto. Non mi sono, però, arresa a quello che percepivo potesse rappresentare l’inizio del degrado del nostro quartiere. Avrei trovato il modo di difendere Tor Bella. Il progressivo disinteresse delle istituzioni verso i problemi della zona, unito alla rassegnazione di una parte della cittadinanza, ha creato lo spazio giusto per consentire ai clan di occuparsi anche di ciò che fino a quel momento sembrava non interessare loro. Non mi sono, però, fermata perché l’indifferenza è il male peggiore. Se entro in un bar e ci sono rappresentanti dei clan, si crea il silenzio, al massimo il sussurro: «Eccola, è arrivata!». Nessuno mi toglierà l’emozione di vedere la luce di speranza negli occhi delle ragazze e dei ragazzi quando siamo insieme a lavorare per difendere la nostra Tor Bella».

Ciò che mi ha affascinato della Polizia è il numero elevato di articolazioni che richiede di cambiare pelle ogni volta. Siamo spinti a metterci perennemente alla prova, sperimentando in maniera diretta approcci e competenze.

Per Angela Altamura, dirigente della Divisione anticrimine della Questura di Roma, in prima linea in tanti settori che hanno riguardato la tutela delle fasce più deboli della società, la vicinanza agli altri, a coloro che le forze di Polizia sonos chiamati a proteggere, è un sentimento fondamentale.

«Penso alle vittime di quello che è diventato il fenomeno criminale più diffuso nel nostro Paese: la violenza contro le donne. È un bollettino di guerra che ogni giorno ci mette davanti a storie di sofferenza e frustrazione. Sono aumentate le denunce da parte delle vittime, ma si tratta di un reato complesso, perché si muove all’interno di contesti particolari, spesso nascosto tra le mura domestiche. Se viene naturale denunciare una persona che ha fatto una rapina o un furto, denunciare quello che è stato il proprio compagno, il padre dei propri figli, è molto più difficile, proprio perché c’è una componente emotiva e psicologica che la vittima deve affrontare e superare. Vittima che, in molti casi, non si riconosce come tale. Il senso profondo di quanto quotidianamente continuo a fare me lo restituiscono le mail, i messaggi, i sinceri ringraziamenti di coloro a cui sono stata vicino, che si sono sentiti tutelati. In un pacchetto, che mi è stato recapitato pochi giorni fa da parte di una scrittrice, si trovava un libro di poesie. Nel biglietto c’era scritto: «Grazie per quello cha fa in difesa delle donne».


Storie che segnano la strada giusta da seguire

Come per Maria Luisa Pellizzari, prima donna vicecapo vicario della Polizia di Stati, che nel suo curriculum ha anche la cattura di numerosi latitanti mafiosi, tra cui Luca Bagarella, e importanti operazioni contro la criminalità organizzata e il terrorismo.

«Quando ho compiuto la mia prima scelta importante, essere tra le prime donne ad accedere alla carriera nella Polizia, ero consapevole che, se non altro per motivi anagrafici, avrei aperto una strada che poi sarebbe stata percorsa da altre. Sapevo che avrei portato anche la responsabilità di rappresentare la “prima donna” in molte circostanze in cui non era mai stata data la possibilità nella storia di precedermi. La prima a dirigere la Stradale, la prima allo SCO: è il mio destino. Adesso siamo in tante, riconosciute per il nostro impegno e i risultati raggiunti. Mi piace ricordare comunque alle ragazze che, noi degli anni ‘80, abbiamo spianato loro la strada. Il fatto che io sia il primo vice capo vicario della Polizia rende possibile che ce ne sia una seconda, una terza e anche un capo della Polizia donna».

Non è facile condividere i principi della solidarietà e del rispetto della legalità

Ne è convinta  Maria Monteleone, magistrato in congedo, consulente per la Commissione di inchiesta del Senato sul femminicidio e le altre forme di violenza.

«Della difficoltà di trattare questa materia ho avuto una diretta esperienza allorquando, tempo addietro, insieme a avvocati e colleghi abbiamo simulato in un liceo di Roma un processo per violenza sessuale, predisponendo la sceneggiatura di un fatto veramente accaduto: una studentessa impersonava la giovane vittima caduta in una trappola online, che incautamente aveva accettato di incontrare l’interlocutore, il quale – improvvisamente – l’aveva spinta all’interno di un portone e violentata. Nel caso di studio, era incontrovertibile che l’imputato fosse colpevole, come era stato riconosciuto nel processo reale; eppure, al termine della simulazione, alcune studentesse, che insieme a me avevano il ruolo del giudice, si pronunciarono paradossalmente per l’assoluzione dell’imputato, giustificando la loro decisione con la tristemente nota espressione: «Però, lei se l’è cercata!». Rimasi sbalordita dalla realtà che avevo davanti. Mai avrei pensato che delle giovani ragazze, di fronte a un fatto così grave, ignorassero ogni principio di legalità e – soprattutto – potessero manifestare un tale grado di cinismo e insensibilità verso una coetanea».

Paola Di Nicola Travaglini, dal 2010 è giudice al Tribunale penale di Roma dove si è occupata di criminalità organizzata e di violenza contro le donne.

«Non sono mancate esperienze che hanno segnato la mia consapevolezza di genere e il mio ruolo. Da un incontro a Poggioreale è cambiata la prospettiva sulla mia identità professionale e non solo. Durante un interrogatorio, un trafficante mi guardava insistentemente come femmina: non riusciva a riconoscere nel mio corpo femminile la rappresentante dell’istituzione che gli rivolgeva domande e accuse. Era come se con lo sguardo passasse attraverso i miei vestiti. È stata una sensazione intensa che mi ha spinto ad approfondire la storia della mia istituzione: a capire il senso del mio disagio da dove provenisse. Per la prima volta ho sentito l’appartenenza alla seconda generazione, inconsapevole di un divieto sessista. Da quel momento ho visto in maniera più chiara tutto il mio percorso professionale: l’atteggiamento del primo dirigente nella Pretura irpina, il mio senso di colpa per essere madre, le mie firme al maschile sotto ogni documento. Fino ad allora ero stata “Il giudice Paola Di Nicola” , poi ho aggiunto il cognome di mia madre, firmandomi “La giudice Paola Di Nicola Travaglini”, così ho ripreso i casi e le sentenze seguite».

I dettagli rendono più chiara la realtà

Un assunto per la giornalista Rosaria Capacchione. Il suo lavoro di cronista giudiziaria e le inchieste sul clan dei Casalesi per “Il Mattino” le sono costate minacce a causa delle quali è costretta a vivere sotto scorta.

«So che il periodo storico è diverso rispetto a quando ho iniziato a fare il mio mestiere, ma continuo a credere che le mafie si possano combattere con la conoscenza reale delle azioni, senza cedere ai quadretti che spesso si accontentano di disegnare alcuni dei giornali, quando si scrive di fatti e indagini riguardanti il fenomeno criminale. Alle ragazze e ai ragazzi che vorrebbero fare il nostro lavoro, quando vado negli incontri organizzati dalle scuole, ripeto: “Raccontate le cose come sono andate, non come vi dicono siano andate. Scrivete dietro ai fogli dei comunicati stampa ciò che vedete direttamente con i vostri occhi e ascoltate con le vostre orecchie. Se trovate un video interessante verificate da dove arrivi, chi siano gli autori. I miei presunti scoop sono frutto di questo lavoro continuo. Sono sempre stata la prima ad arrivare e l’ultima ad andare via da un luogo dove è stato commesso un fatto. I dettagli sono fondamentali a ricostruire e capire».

La mia identità è collegata alle scelte che
ho visto fare alla mia famiglia e che poi ho completamente condiviso da adulta

Valentina Fiore, a.d. Consorzio Libera Terra Mediterraneo

Suor Carolina Iavazzo è stata la più stretta collaboratrice di Don Pino Puglisi, il parroco del quartiere Brancaccio di Palermo, ucciso da Cosa Nostra nel ‘93 e proclamato beato. A Bovalino, in Calabria, dove si è trasferita dopo la sua morte, ha fondato il centro Don Pino Puglisi.

«Quando ero piccola sognavo mi devo a girare il mondo, raccontando le storie delle persone. Tutto credevo di fare nella vita, tranne la suora. Verso i 16 anni ho cominciato ad attraversare una crisi esistenziale: niente mi rendeva serena. Accettai l’invito di alcune amiche per un viaggio a Roma. Alloggiavamo in un istituto religioso. Mi affascinò il silenzio dei luoghi che mi portò alla preghiera. Dopo mesi di travaglio interiore, provai un’insolita sensazione di pace. Fu come se Dio mi avesse preso per i capelli, indicandomi la strada verso un altro tipo di felicità. Quando mi dissero che dovevo andare a Palermo, accettai pur se non avevo alcun riferimento nella città siciliana. Il 2 ottobre del 1991, partii sola, ignara del luogo in cui avrei vissuto, lavorato e operato come suora. Nel treno che viaggiava con oltre 8 ore di ritardo, divisi lo scompartimento insieme ad altre sorelle. Raccontai loro che sarei andata a collaborare con don Pino Puglisi, ma non sapevo nemmeno come fosse fatto fisicamente. Lo riconobbi subito. Mi aspettava con un sorriso aperto, luminoso e sincero. Lui non si limitava alle parole, faceva seguire i fatti. I boss che potevano pure accettare una manifestazione con slogan e striscioni, iniziarono a non tollerare quel prete che stava costruendo alternative concrete, scardinando lentamente la cultura mafiosa della sottomissione e dell’omertà. Non sono diventata una giornalista, ma ho portato e continuo a portare avanti la volontà di cambiare attraverso l’ascolto e la cultura».

La legalità viaggia attraverso la confisca dei patrimoni al mafiosi

Lo sa bene Valentina Fiore, amministratore delegato del Consorzio Libera Terra Mediterraneo, che con la virulenza della mafia si confronta già da studentessa.

«Nel maggio del 1992 avevo 15 anni e frequentavo il liceo a Palermo. La mattina del lunedì 25 ci convocarono nell’aula magna: «Oggi, ragazzi, non si fa lezione, andrete ai funerali del Giudice Falcone». Il preside pronunciò solo questa frase, senza aggiungere altro. Normalmente, all’annuncio di saltare la scuola, avremmo esultato, ricordo invece un silenzio attonito. Probabilmente ancora non pienamente consapevoli fino a quel momento della reale portata di quanto accaduto solo due giorni prima sull’autostrada verso l’aeroporto, ne comprendemmo la gravità nell’assenza di spiegazioni, di domande, di parole. Improvvisamente ci ritrovammo in una città diversa. Venivamo fermati dai militari, presenti agli angoli delle vie, per controllare i documenti. I miei genitori erano entrambi impiegati: mamma alla Fiat, papà alle Ferrovie. Nella nostra casa siamo stati educati al massimo rispetto dell’etica del lavoro e degli altri. Ricordo la ricerca fatta durante la scuola media grazie alla professoressa di italiano. «Cosa ne pensa della mafia?». Chiedevamo ai passanti, fingendoci cronisti d’assalto, in realtà protetti dalla nostra età e incoscienza. C’era chi scappava e chi si fermava a riflettere. Mi rimase impressa una barista che mi concesse molto tempo per sostenere la sua tesi che la criminalità vera fosse a Roma, nelle stanze della politica. Io ho a cuore il tema del ricambio generazionale. Oggi vedo che ci sono energie che stanno nascendo, avverto la voglia e la necessità di lasciare spazio, io l’ho avuto. Occuparsi di chi verrà dopo di noi è nel Dna dell’agire delle cooperative. Metterci competenze e passione nel farlo è in quello dei buoni cooperatori. Alle ragazze e ai ragazzi che incontro nelle scuole e durante i loro tour nelle nostre cooperative ripeto: «La realizzazione professionale può venire da voi stessi, ma raggiungere gli obiettivi da soli è più difficile, condividere con gli altri dà coraggio e forza per mettersi alla prova». Così si crea un progetto di vita in cui si condividono valori e prospettive concrete».

Una storia su tutte sembra stonare rispetto alla caratura morale delle testimoni di questa graphic novel, quella di Daniela Lo Verde, la preside dell’Istituto Falcone dello Zen, attualmente sotto inchiesta per una indagine della Procura Europea.

«Avevano deciso di inserire, tra le dieci donne, anche una rappresentante della scuola in un contesto difficile, insignita per il suo impegno della nomina a Cavaliere della Repubblica. Purtroppo la sua vicenda ha preso un corso che ci ha profondamente amareggiate», scrivono le autrici, «proprio perché consapevoli dell’importanza di quanto fatto precedentemente per il territorio e per i ragazzi dello Zen, percependo la delusione e l’amarezza provata da parte di coloro per cui rappresentava un simbolo di riferimento. Abbiamo deciso di lasciarla in appendice, non senza precisare quanto sia accaduto negli ultimi mesi. Certe che ci sia la necessità di modelli sani, concreti e onesti che diano risalto alle donne che consentono di portare avanti la sfida quotidiana contro corruzione e illegalità che sono la maggior parte e che lavorano in perfetta sinergia con gli uomini. Solo così possiamo provare a superare barriere culturali e difficoltà oggettive, fornendo un esempio proficuo a bambine, bambini, ragazze e ragazzi, attenti e sensibili ai quali questo libro continua ad essere dedicato».

Le immagini sono tratte dalla graphic novel e sono state concesse dall’autrice

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