Minori & Giustizia
Da Bibbiano al Beccaria, dove ci stiamo perdendo?
Non ci sono mai stati tanti minori in carcere. L'anello delle comunità è ceduto. Le misure cautelari fanno sparire i percorsi di messa alla prova che garantivano una recidiva bassissima: un'eterogenesi dei fini per chi voleva più sicurezza. E fuori dal penale le criticità non mancano, a cominciare dal termine rigido dei 24 mesi per gli affidi. In dialogo con Claudio Cottatellucci, neo presidente dei magistrati per i minorenni e per la famiglia
Minori e giustizia. Da Bibbiano al Beccaria, dalla legge regionale “allontanamenti zero” al “decreto Caivano” fino ad arrivare ai commenti sui social che ormai nel ragazzino autore di reato non vedono più il ragazzino, non vedono più lo specifico. Qual è lo spazio oggi per il minore, nell’ambito della giustizia? In alto e in basso, nelle pratiche e nella cultura. Perché il nostro «fiore all’occhiello» rischia di appassire se non viene adeguatamente coltivato. Da un lato assistiamo infatti al ritorno di una cultura adultocentrica, che rischia di guardare più ai diritti e ai desideri degli adulti che ai bisogni dei bambini. Dall’altro al crescere di una cultura securitaria, patologizzante, che tende a erodere gli spazi dell’educazione in favore di quelli della correzione e rende sempre di più inattuale l’approccio pedagogico (rimando qui al recente bel volume Percorsi inattuali dell’educazione, edizioni Anicia). Claudio Cottatellucci da inizio febbraio è il nuovo presidente dell’Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia-Aimmf: un dialogo a tutto campo.
Presidente, partiamo dai numeri degli affidi, da poco aggiornati dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali: a fine 2021 i minori fuori famiglia erano 27.329, di cui 14.081 in comunità (in aumento) e 13.248 in affidamento familiare (in calo). Numeri che destano sorpresa, nel senso che da un lato ci saremmo aspettati un calo significativo legato ai tanti sospetti che sono stati strumentalmente addossati a questo mondo in occasione della vicenda di Bibbiano e dall’altro lato però ci saremmo attesi una crescita importante degli affidi per via dell’esplosione delle fragilità individuali e familiari che tutti, dopo il Covid, raccontiamo. Che analisi può fare, da un osservatorio che non è né quello delle singole vicende personali né quello freddo delle statistiche ma quello delle storie reali delle famiglie e dei minori che arrivano ai Tribunali per i Minorenni?
È difficile dire fare un’analisi, perché il 31 dicembre 2021 segna un lasso temporale troppo stretto rispetto alle due dinamiche a cui lei fa riferimento, mi pare prematuro trarre delle evidenze o delle conclusioni su un arco di soli due anni. Fra l’altro visto che più del 60% degli affidamenti familiari superano i 24 mesi, significa che nella fotografia scattata al 31 dicembre 2021 c’è una buona quota di affidamenti iniziati ben prima del dicembre 2019: quindi questi dati ci dicono davvero poco delle tendenze più recenti. Quello che posso dire che il dato di “stabilità” degli affidamenti e degli allontanamenti corrisponde grossomodo all’impressione che abbiamo lavorando “sul campo”.
È vero che è sempre più difficile trovare famiglie disponibili all’affido?
In certe aree territoriali sì, ma soprattutto per fattori strutturali di lungo periodo. Uno ha a che fare con la difficoltà economica che tante famiglie vivono e l’altro con la mancata presa in carico della famiglia di origine. L’affido, se prendiamo sul serio la sua dimensione di temporalità, deve essere affiancato da altre azioni, prime fra tutte quelle a sostegno del nucleo di origine o del genitore: l’affido cioè non può essere l’unica azione messa in campo. Troppo spesso invece accade proprio questo, che l’allontanamento del minore e l’affido siano l’unica azione agita: ma se l’affidamento familiare è lasciato troppo solo, se è l’unica misura, pone sulle famiglie affidatarie un carico estremamente impegnativo e improprio. Questo a mio giudizio spiega in maniera qualitativamente più significativa la mancata crescita dell’affido.
L’affido, se prendiamo sul serio la sua dimensione di temporalità, deve essere affiancato da altre azioni, prime fra tutte quelle a sostegno del nucleo di origine. Troppo spesso invece accade che l’allontanamento del minore e l’affido siano l’unica azione agita
Claudio Cottatellucci, presidente Aimmf
Ed è vero che le famiglie sono più fragili e quindi servirebbero più interventi di messa in protezione dei minori?
C’è una maggior fragilità e una maggiore esigenza di intervenire ma c’è anche da dire che abbiamo modelli normativi per interpretare queste situazioni che sono un po’ “oscillanti”. Prendiamo la legge 173/2015, che colloca l’affidamento dentro una biografia personale e affettiva del minore che non si esaurisce nell’arco temporale dell’affidamento e che supera la dicotomia della legge 184/1983 tra affidamento e adozione… lì la lettura dell’affidamento è molto centrata sulla persona del minore. Adesso invece ci troviamo con testi più recenti che rimarcano la durata biennale dell’affidamento, con un atteggiamento che dice il “sospetto” del legislatore che l’affido possa essere strumento per una appropriazione impropria del bambino. Naturalmente il giudice anche ora può rinnovare l’affido qualora ne veda la necessità, ma questa oscillazione non aiuta. Per esperienza so che il biennio molte volte non è sufficiente per chiudere l’affidamento e lo stesso report del ministero dice che, al termine dell’affido, si apre tutto un ventaglio di situazioni concrete per cui il rientro in famiglia è solo una delle ipotesi e nemmeno quella statisticamente principale. Contare i due anni a prescindere dal punto di partenza, dall’età del minore quando l’affidamento è iniziato, dalle azioni messe in campo a sostegno della famiglia di origine… avrà una funzione rassicurante per chi ragiona in termini teorici ma non per chi deve prendere decisioni per la vita reale delle persone, che è il proprium del Tribunale. Se l’uscita dal nucleo familiare è avvenuta in adolescenza, per esempio, è difficile immaginare un rientro in famiglia al termine di un biennio. L’obiettivo dell’intervento, in quel caso, in buona misura dovrà essere volto alla costruzione del percorso di autonomia del minore, in vista della maggiore età. Quel che voglio dire è che mettere un termine va bene se si vuole ricordare a tutti che un buon affidamento deve avere una temporaneità, ma sulla rigidità della regola ho molti dubbi. Dovremmo interrogarci di più su cosa succede durante l’affidamento. Il tema insomma è l’appropriatezza delle soluzioni, non tanto la durata.
Il prossimo 17 ottobre, a meno di una proroga che Aimmf ha chiesto con insistenza, entrerà in vigore un’altra parte della riforma Cartabia. Gli affidi termineranno tutti dopo 24 mesi, a meno che un giudice ravvisi una situazione di pregiudizio per il minore dal rientro in famiglia e quindi ne disponga la proroga. Ci saranno “intasamenti”? Si riuscirà a fare una valutazione per ogni affido “in scadenza” o alcuni si interromperanno semplicemente perché ci sarà un sovraccarico di lavoro?
Ripeto, gli affidamenti anche oggi ovviamente vengono disposti in via temporanea e anche oggi i provvedimenti sono oggetto di costante revisione e rivalutazione: parliamo di decisioni che per loro natura sono provvisorie, dovendo seguire gli eventi e la storia delle famiglie e dei minori. La novità è che la proroga dovrà essere decisa prima della scadenza dei 24 mesi. Non credo ci saranno “intasamenti” ma per evitarli la cosa più importante è che i servizi si interroghino con adeguato anticipo se quella scadenza è congrua rispetto al percorso in atto: c’è un servizio pubblico che segue gli affidi e se ritenesse che non ci sono le condizioni per un rientro a casa… solleciterà una proroga nei tempi adeguati. L’esistenza di un buon grado di integrazione tra giurisdizione e sistema del welfare d’altro canto è una precondizione per il buon funzionamento della giustizia minorile. Se i sistemi fanno fatica a parlarsi o scontano la penuria di mezzi o persone, diventa tutto più difficile.
E come siamo messi su questo?
È una domanda retorica. A macchia di leopardo.
Le misure cautelari hanno una funzione di contenimento nell’immediato, ma rischiano di snaturare le caratteristiche del processo penale minorile
Andiamo alla vicenda delle violenze emerse al Beccaria. Lei che riflessioni ha fatto?
Le accuse indicano una situazione molto grave, se fossero comprovate devono portare a una riflessione profonda del sistema. In generale però questo momento ci sfida a fare una riflessione complessiva sul carcere minorile, perché quello che sta accadendo negli ultimi due anni ha davvero pochi precedenti nel passato, bisogna dirlo. Le presenze medie negli Ipm sono aumentate, passando da 350/380 alle oltre 500 di gennaio 2024. Per la prima volta si parla di sovraffollamento carcerario per gli Ipm, qualcosa che non abbiamo mai avuto. Questa è la prima questione. Per capire il “perché” di questa crescita, bisogna guardare il titolo in base a cui le persone sono in carcere e la crescita è tutta ascrivibile alle misure cautelari, con un ribaltamento del rapporto tra i detenuti che sono in Ipm con una condanna definitiva e quelli che sono in Ipm per una misura cautelare (il recentissimo rapporto Antigone dice che il 94,3% dei giovani è in carcere senza alcuna condanna passata in giudicato ma solo per custodia cautelare, ndr). Sono state allargate le ipotesi di reato per cui si può prevedere la detenzione in Ipm come misura cautelare e sono stati estesi pure i termini massimi della misura. A parte le domande che la carcerazione preventiva pone sempre rispetto alla presunzione di innocenza prevista dal nostro sistema, il punto è che le misure cautelari hanno sì una funzione di contenimento nell’immediato, ma rischiano di snaturare alcune delle caratteristiche principali del processo penale minorile.
Dobbiamo tutti fare una riflessione sul perché quell’anello fondamentale che sono le comunità oggi cede
In che senso?
Questo ricorso così importante alle misure cautelari non è privo di effetti su quello che accade dopo, nel processo. Le persone rischiano di essere private della libertà per periodi di tempo più lunghi. Mi spiego. Siccome una parte non scarsa dei procedimenti che riguardano i minorenni sono reati per cui sono comminate pene dell’ordine di qualche mese, è possibile che la detenzione cautelare finisca per assorbire per intero la pena. Ma nel processo penale minorile il carcere non è mai la pena tipica, essendo invece la giustizia minorile tutta centrata sulla risocializzazione e la riconciliazione: il processo generalmente indica l’istituto della messa alla prova, non il carcere. Ma se spostiamo il baricentro, come sta accadendo, la misura cautelare finirà per assorbire buona parte dell’esito del processo e i minori a quel punto non faranno più alcun percorso di messa alla prova o di giustizia riparativa. Noi questo effetto in questo momento non lo vediamo, al momento vediamo solo la crescita della popolazione degli Ipm, però il vero tema è questo. E l’esito sarà l’aumento dalle recidive. Fino ad oggi possiamo dire che la giustizia minorile, con la messa alla prova, ha consentito una recidiva veramente bassa, ma ora la situazione rischia di peggiorare. Abbandonare una prospettiva legata all’educazione e alla risocializzazione è proprio la risposta sbagliata, anche per chi ha a cuore la sicurezza. L’effetto – al contrario – è quello di aumentare l’insicurezza. È una eterogenesi dei fini.
Cosa altro la preoccupa?
L’altra questione che voglio portare alla riflessione è che sembra che le persone che sono in Ipm non hanno avuto quella come prima collocazione: sono stati collocati in comunità, ma siccome lì hanno avuto comportamenti che non erano compatibili con la comunità stessa o hanno commesso rati, sono in aggravamento in carcere. Non ci sono dati precisi, ma si stima che il 40% dei minori in Ipm sia lì per aggravamento. Questo deve farci molto riflettere, perché le comunità rispetto ai minori del circuito penale sono state concepite esattamente come luogo alternativo al carcere: i ragazzi del penale presentano oggettivamente situazioni difficili da gestire, ma queste comunità sono nate esattamente per questo e non sono nate oggi. Sarà cambiata un po’ la composizione della popolazione, saranno cambiate un po’ le caratteristiche dei ragazzi – vedo anche sottolineare con una certa insistenza la crescita dei problemi di dipendenza o di un disagio psichico tra i ragazzi, ma anche qui mi sento di dire che occorre fare attenzione per evitare che questo diventi uno stigma aggiuntivo – ma questo è uno stravolgimento: dobbiamo tutti fare una riflessione sul perché quell’anello fondamentale che sono le comunità oggi cede. È urgente ricostruire una rete di comunità capaci di gestire agiti difficili. So che il ministero sta lavorando per aprire nuove comunità: è una buona notizia, ma a monte bisogna capire meglio dove sta il problema.
La giustizia minorile, con la messa alla prova, ha consentito una recidiva veramente bassa. Abbandonare la prospettiva legata all’educazione e alla risocializzazione è la risposta sbagliata, anche per chi ha a cuore la sicurezza
In generale viviamo in una società in cui gli immaginari e le pratiche formative sono alimentate da un sistema volto al controllo sociale, alla sorveglianza delle condotte, al disciplinamento degli individui e alla correzione di tutti coloro che per diverse ragioni sono “diversi”, “anormali” e “devianti”. Con un’esplosione dell’esigenza di un trattamento correzionale. Come le sembra che come società guardiamo oggi i percorsi – non solo i reati – di questi ragazzi?
Che ci sia un’enfasi inedita sulla pena e sul carcere anche per i minorenni è vero ed è un segno di regressione culturale. È chiaro che devi punire e contenere le condotte devianti, ma il tema è se abbandoniamo o no una prospettiva di risocializzazione. Se la abbandoniamo per i minorenni, figuriamoci per gli adulti.
Il mondo della giustizia minorile ha criticato molto aspramente l’assorbimento del Tribunale per i minorenni nel nuovo Tribunale unico per la famiglia, evidenziando in particolare la perdita di quella ricchezza di sguardo che un giudizio collegiale permetteva, grazie alla presenza di professionalità diverse da quelle giuridiche, con i giudici onorari. Alla fine, la politica è andata dritta per la sua strada e questa parte della riforma Cartabia sarà operativa da ottobre. Che preoccupazioni vive la giustizia minorile oggi?
Sostanzialmente la questione è che si rischia di privare tutta la giurisdizione che si occupa del pregiudizio di cui soffrono i minori di un presidio importante. La riforma ha scelto di affidare a un solo giudice la decisione, mentre l’esperienza pluridecennale ci ha dimostrato quanto la decisione collegiale abbia una maggiore profondità e riesca meglio ad avere anche un valore prognostico. Perché nel nostro ambito non si tratta solo di riconoscere quel che è successo, ma di immaginare percorsi possibili. Noi non siamo contrari alla riforma Cartabia tout court, siamo contrati al fatto che siano stati estromessi dal giudizio professionisti esperti di discipline umanistiche, che hanno sempre apportato un’esperienza preziosissima. Nella giustizia minorile abbiamo bisogno di un giudizio corale.
Foto di Amir Hosseini su Unsplash
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